Marías, l’incantatore di anime

Chiunque abbia aperto e cominciato a leggere Domani nella battaglia pensa a me dello scrittore spagnolo Javier Marías può dire che l’inizio di quel romanzo provoca un senso di stupore, meraviglia, ammirazione, e al tempo stesso angoscia. Il libro, pubblicato nel lontano 1994, ha un titolo shakesperiano, dal quinto atto del Riccardo III («Tomorrow in the battle think of me, and fall thy edgeless sword; despair and die!»), ed è uno dei capolavori della letteratura contemporanea.
Lo stupore, la meraviglia, l’ammirazione, e soprattutto l’angoscia vengono da un inizio (molto lungo, di decine di pagine) spiazzante. Per incuriosire il lettore che ancora non conosce questo testo di Marías lo accenno soltanto. La storia è raccontata da uno sceneggiatore, Víctor. Víctor viene invitato a cena da una certa Marta Téllez. Non sono amici, si sono conosciuti solo la sera prima, e Víctor di Marta non sa praticamente nulla. Lei lo invita a cena a casa sua, ha un figlio piccolo che dorme nella sua stanzetta mentre il marito Eduardo, si trova a Londra per lavoro. Mentre stanno cominciando a fare l’amore, Marta ha un malore. Le sue condizioni peggiorano subito, perde conoscenza, Víctor trova un biglietto con il numero dell’albergo londinese in cui soggiorna Eduardo ma, quando l’uomo risponde, Víctor non riesce a parlare e chiude la comunicazione. Marta muore. Víctor lascia la casa, togliendo qualsiasi traccia di sé, prepara la colazione al piccolo Eugenio, sperando che il giorno dopo qualcuno trovi il corpo della madre.
La storia va avanti per decine di pagine. E ci colpisce nel profondo. Ci mostra il paradosso dell’esistenza. Uno sconosciuto in una casa che non ha mai visto, in un quartiere di Madrid che non conosce. Una donna di cui non sapeva nulla fino alla sera prima. Un mondo oggi impensabile, in tempi di social network, dove tutti si informano e sanno. Ma questo è Marías, questi sono gli scrittori quando sono capaci di far breccia nelle incertezze e nelle fragilità dei lettori.
Giudizio filosofico
Se mi è tornato in mente l’inizio di questo romanzo è perché ho appena visto che Einaudi annuncia l’uscita di un volume che raccoglie tutti i racconti di Marías. Questi racconti sono accompagnati da una frase esplicativa, un giudizio autorevole, chiamatelo come volete, del New York Journal of Books: «Marías ha il potere di stregarci con le sue parole. Non è solo un grande scrittore: è un incantatore di anime».
È una frase che mi colpisce, è autorevole, pubblicata su un giornale che conta: dice che Marías non è solo un grande scrittore. Dice che è un incantatore di anime. E io non avevo mai pensato prima che ci sono grandi scrittori (che so: Hemingway) e incantatori di anime, e che non è detto che tutti i grandi scrittori siano incantatori di anime. Possono non esserlo. E allora perché l’anima? Posso capirlo questo giudizio che prende strade filosofiche. È vero, era la mia anima a restare incantata dalle prime pagine del suo romanzo. Incantata e inquieta, s’intende. E mi piace quando si prova a spiegare la letteratura con qualcosa d’altro. E tirare fuori l’anima è sempre un colpo a sorpresa, un effetto teatrale che ha una sua ragione.
Sono duemila anni, almeno, che non riusciamo a trovare una definizione accettabile dell’anima. Per un filosofo resta sempre quella di Aristotele: «l’anima è la sostanza del corpo». E non mi spingo oltre perché la cosa si farebbe difficile. Ora essere degli incantatori di anime cosa può mai significare? Tutt’altro. Perché con il passare dei secoli, e lo scorrere di un paio di millenni, l’anima ha smesso di albergare solo nel corpo, ed è finita dappertutto.
Spettro della macchina
Un filosofo inglese del Novecento, Gilbert Ryle, diceva che l’anima è «lo spettro della macchina». Dove per macchina si intende ogni cosa che ci circonda. L’anima sta dentro le macchine, nei luoghi, nelle atmosfere. I libri hanno un’anima, il cinema ha un’anima, le case hanno un’anima. E non parliamo dell’arte, e persino dell’amore. Un incantatore di anime è qualcuno che sa fermare la bellezza oltre la tecnica, oltre la capacità di raccontare. «Non è solo un grande scrittore» significa semplicemente: un grande scrittore ha la sapienza di saper raccontare, un incantatore di anime è qualcuno che va oltre il semplice intrattenimento. E l’intrattenimento è la macchina. E l’intrattenimento è la parola magica di questa contemporaneità. Tutto è «entertainment». Usiamo questa espressione per le narrazioni per i film, per i romanzi, per le serie. Quando funzionano sono «macchine perfette». Ci piace l’idea che intrattenere significhi prima di ogni cosa mettere a regime gli ingranaggi. Ma poi c’è lo spettro, come scriveva Ryle. Lo spettro è un’altra storia. Non è da tutti. È da incantatori. E non c’è dubbio che Marías non appartenga alla categoria degli intrattenitori, ma degli incantatori di spettri, dunque di anime.