Martin Suter e il cinema

Oerlikon, esterno (e poi interno) giorno. Mascherina obbligatoria per tutti i presenti: regista, troupe, ufficio stampa e i giornalisti invitati a visitare il set (a questi ultimi è stato chiesto anche di firmare una liberatoria sul loro stato di salute). Solo una persona ha il diritto di muoversi a volto scoperto, mentre la macchina da presa lo segue, per poi adempiere alle regole sanitarie appena viene dato lo stop. È Martin Suter, il celebre scrittore, residente in Spagna ma tornato nella regione di Zurigo per la lavorazione di un documentario, il primo interamente dedicato a lui e alla sua opera: oltre alle interviste classiche ci saranno anche sequenze in cui attori professionisti leggono passaggi dei testi di Suter.
«Non amo stare sul set»
L’autore passa circa un’ora a girare una scena, camminando su e giù per una stradina, seguendo le indicazioni del regista André Schäfer, con sporadiche interruzioni dovute ad automobili e biciclette. Dopodiché, in attesa della pausa pranzo, si intrattiene con la stampa in uno degli appartamenti che fungono da base operativa per la troupe, ed è in tale occasione che fa quattro chiacchiere anche con noi. Essere protagonista di questo progetto, che uscirà nell’autunno del 2021, lo intriga ma lo mette anche un po’ a disagio: «Non amo stare sul set, faccio in modo di non trattenermi a lungo quando girano l’adattamento di uno dei miei libri o portano sullo schermo una mia sceneggiatura. In questo caso però non posso andare da nessuna parte».
C’è di mezzo, almeno in parte, una questione di controllo, che si manifesta anche quando si tratta di scegliere se tramutare un’idea in un romanzo, un testo teatrale o una sceneggiatura cinematografica.
«Preferisco i romanzi»
«Preferisco i romanzi - spiega Suter - perché in quel caso non ho un capo, decido tutto io, mentre a teatro o al cinema non è così. E poi non mi piace particolarmente l’industria cinematografica, perché tra l’idea e l’uscita del film possono passare anni».
Un esempio di quest’ultimo aspetto è legato a uno dei suoi maggiori successi cinematografici, Giulias Verschwinden, che nel 2009 venne presentato in prima mondiale in Piazza Grande a Locarno, conquistò il cuore di 7.200 spettatori che gli assegnarono il Premio del Pubblico. Si trattava di un soggetto concepito per il regista grigionese Daniel Schmid, con cui Suter aveva già collaborato nel 1987 per la sceneggiatura di Jenatsch, nel 1992 per Hors Saison e nel 1999 per Beresina, anch’essi presentati a Locarno.
Un’idea nata per Daniel Schmid
Spiega l’autore: «Proposi l’idea a Daniel, ma lui aveva un altro progetto in mente, e mentre stava lavorando a quello si ammalò e poi morì. Successivamente Marcel Hoehn, il produttore, mi chiese se fosse possibile realizzare il film con Christoph Schaub alla regia, e devo dire che rimasi molto soddisfatto del risultato finale».
La situazione attuale ha avuto un qualche impatto sulla sua vita lavorativa? «No, perché come la maggior parte degli scrittori sono abituato a lavorare da casa. La grande differenza è stata sul piano personale, con la famiglia, perché ho una figlia quasi quattordicenne, e per tre mesi è rimasta in casa con me e mia moglie». La figlia, ci dice Suter, influisce anche sulle scelte cinematografiche: «Vedendo i film con lei tendiamo a evitare le cose più pesanti, ci buttiamo sull’intrattenimento. L’altro giorno abbiamo visto insieme un Mission: Impossible, credo fosse il sesto. L’unico problema è che io a un certo punto mi addormento, credo sia una cosa fisiologica legata all’età. Mi alzo presto, lavoro tutto il giorno e la sera crollo davanti al televisore».
A proposito di lavoro, prima di darsi alla scrittura a tempo pieno Suter si è fatto le ossa nella pubblicità. Dirà la sua sul marketing del film? Sorride: «No, perché non ho mai lavorato in quel settore. Il mio contributo si limita a interviste come questa».