Matt Damon, un americano a Marsiglia

Cosa ci fa Bill Baker, operaio nei pozzi petroliferi dell’Oklahoma, in uno dei quartieri più malfamati di Marsiglia, con in mano la fotografia di un giovane di nome Akim che mostra a tutte le persone che incontra? Rispondere a questa domanda significa immergersi nei profondi meandri di Stillwater, il nuovo lungometraggio del regista Tom McCarthy, conosciuto soprattutto per Spotlight con il quale si aggiudicò l’Oscar per il miglior film e quello per la migliore sceneggiatura originale nel 2016, presentato fuori concorso a Cannes. Stillwater è un film per molti versi curioso ma pienamente riuscito soprattutto nel fatto di coniugare, senza stereotipi, due realtà culturali ed esistenziali tanto diverse quanto la sperduta provincia statunitense e una città mediterranea multiculturale e brulicante di attività. A fare da ponte (e che ponte!) tra questi due mondi apparentemente opposti è l’imponente figura di Matt Damon (ingrassato e palestrato per l’occasione) che si dimostra ancora una volta inimitabile interprete dell’americano medio. di estrazione proletaria e del tutto ignorante di molti aspetti della vita, ma animato da una cocciutaggine e da una voglia di «fare del bene» ad ogni costo che affonda le proprie radici in una devozione religiosa estremamente rudimentale.
Una figlia in prigione
Bill Baker si trova a Marsiglia per far visita, come gli capita regolarmente, alla figlia Allyson (Abigail Breslin) condannata a una pena di prigione di 9 anni con l’accusa di aver pugnalato la compagna di università con la quale condivideva l’appartamento e viveva una relazione sentimentale. Verdetto che la giovane ha sempre negato e che il padre si è ormai rassegnato ad accettare. Finché un nuovo indizio rimette in discussione quelle che sembravano certezze incrollabili... A quel punto inizia in pratica un nuovo film, poiché il burbero e taciturno Bill, dopo aver incassato il rifiuto degli avvocati della figlia, decide di condurre le indagini in prima persona. Per farlo però ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a superare le sue difficoltà linguistiche, facendogli da interprete durante i suoi colloqui con i marsigliesi. Per puro caso incontra Virginie (Camille Cottin), attrice di scarso successo ma ricca di passione che vive con Maya, la figlioletta di nove anni il cui padre è scomparso da tempo nel nulla. Sorprendentemente, a poco a poco, dopo non pochi diverbi e incomprensioni, Bill troverà nelle due donne il calore di quella famiglia che non ha mai avuto. Fino al momento in cui questa preziosa relazione sarà minata dalla determinazione dell’uomo nel cercare di trovare quella verità in cui crede e che potrebbe far uscire la figlia di prigione.
Un’indagine complessa
Raggiungere questa verità si rivelerà però molto più complicato del previsto. E qui sta forse il pregio maggiore di Stillwater, al di là di un equilibrio quasi perfetto tra thriller e commedia. Come aveva già fatto con Spotlight, ma qui a un livello molto più intimo, Tom McCarthy ci mostra come sia indispensabile studiare in profondità i fatti della vita per poter giungerne a coglierne il senso. Una lezione che si indirizza ai singoli individui ma anche ai media e che, come scopriamo nel finale del film, rende molto fluido il confine tra innocenti e colpevoli, tra buoni e cattivi. Una lezione che pare essere stata del tutto assimilata dal protagonista che, di fronte alla prospettiva sempre identica che si scorge dal portico della sua casa di Stillwater (Oklahoma) conclude il film sentenziando: «È vero, tutto è sempre uguale ma ora vedo le cose in maniera diversa». Un film, insomma, da non perdere al momento della sua uscita nelle sale nel prossimo autunno.