L'intervista

«Molto chiara, semplice, inclusiva: ecco com’è stata la lingua del COVID»

Angela Ferrari, linguista dell'Università di Basilea, illustra i contenuti di uno studio sulla comunicazione istituzionale ticinese durante il periodo della pandemia
Anche le parole della politica nelle conferenze stampa del periodo pandemico sono state, ad avviso degli specialisti, chiare. ©CdT/Gabriele Putzu
Dario Campione
30.11.2022 06:00

Nel corso di un convegno organizzato la settimana scorsa dall’Università di Basilea al Palazzo delle Orsoline, sono stati presentati i risultati di uno studio finanziato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e finalizzato a capire se la «lingua del COVID» sia stata più o meno chiara; se cioè il Cantone, in particolare, abbia saputo parlare con i cittadini nel tempo dell’emergenza. Angela Ferrari, linguista dell’ateneo basilese, è stata l’organizzatrice del convegno. L’abbiamo intervistata.

Professoressa Ferrari, com’è stata, in Canton Ticino, la lingua del COVID?
«Prima di rispondere, una doverosa premessa: anche grazie alle parole dei consiglieri di Stato che hanno aperto il convegno, abbiamo toccato tutte e tutti con mano come i ricordi e le emozioni legate a quei giorni difficili siano tuttora forti. Per quanto riguarda la qualità della comunicazione istituzionale di quel periodo, il giudizio è complessivamente più che lusinghiero: possiamo dire con una certa fierezza che in generale, in Ticino, la chiarezza linguistica della comunicazione COVID è stata raggiunta con successo. Questo non significa che i testi siano sempre stati grammaticalmente perfetti o stilisticamente sempre eleganti, ma quanto alla chiarezza non c’è molto da ridire».

In che cosa consiste la chiarezza dell’italiano amministrativo? Quali sono gli aspetti che un ricercatore deve prendere in considerazione nella sua analisi?
«Una comunicazione chiara si rivela tale grazie a molti aspetti. Intanto, perché è caratterizzata da parole del linguaggio comune, e quando compaiono parole tecniche queste sono sempre spiegate. Inoltre, la comunicazione è chiara se evita gli anglismi, le sigle oscure, e mantiene una grammatica semplice: frasi brevi, molte più coordinate che subordinate, poche nominalizzazioni (l’utilizzo dei nomi al posto dei verbi, ndr), punteggiatura lineare che si accorda con la sintassi e non la spezza, organizzazione dei contenuti all’interno del testo che ne rispetta la logica. C’è un altro fattore importante, poi, che credo sia da evidenziare».

Quale?
«Le informazioni veicolate da una comunicazione chiara devono bastare a sé stesse, devono essere capite senza fare ricorso a conoscenze pregresse che non necessariamente il lettore possiede. In generale, dietro la lingua chiara si intravede un preciso obiettivo, che va sottolineato».

Credo che la scelta di una lingua chiara da parte delle istituzioni cantonali sia figlia del sempre maggiore desiderio di inclusività

A che cosa si riferisce, in particolare?
«Credo che la scelta di una lingua chiara da parte delle istituzioni cantonali sia figlia del sempre maggiore desiderio di inclusività: sempre di più si tenta di usare un linguaggio che elimini ogni tipo di barriera comunicativa, ad esempio verso i cittadini che hanno qualche tipo di disabilità legata alla lettura o verso gli stranieri».

Nel periodo che avete analizzato, chi è stato più chiaro nella comunicazione istituzionale? La Confederazione? Il Cantone? O magari gli enti locali?
«In realtà, abbiamo guardato con attenzione soltanto quanto fatto dal Cantone. Per quanto riguarda la comunicazione in italiano della Confederazione, si può comunque osservare che c’è molta attenzione alla chiarezza. La situazione è tuttavia più delicata, perché i testi in italiano - sia quelli informativi che quelli normativi - sono tendenzialmente tradotti dal tedesco, il che rende l’operazione più difficile e il rischio di inciampi linguistici più probabile. In particolare, ciò vale per le leggi e le ordinanze che sono state prodotte durante la pandemia: la complessità della materia e la fretta del legiferare non sempre sono state buone consigliere».

Secondo lei, la chiarezza dell’italiano amministrativo ha trascinato i media ticinesi verso un linguaggio più semplice o il processo è stato inverso, sono stati i media cioè a spingere nella direzione di un italiano più comprensibile, magari semplificando le espressioni burocratiche?
«I giornali ticinesi non hanno, in generale, un linguaggio complesso, ma credo che nel tempo della pandemia tutti i media, anche i social, siano stati trascinati a una maggiore attenzione alla chiarezza. Rispetto ai quotidiani italiani, ad esempio, in Ticino sono stati utilizzati meno tecnicismi e meno anglismi, anche grazie alla spinta delle istituzioni. Sempre riguardo ai media, abbiamo analizzato anche le metafore con cui si è parlato di COVID. La più scontata, quella bellica, molto sfruttata in Italia o negli USA, in Ticino è stata adoperata davvero poco. Nel suo intervento al convegno, Ivan Vanolli ha spiegato come il Servizio dell’informazione e della comunicazione del Consiglio di Stato abbia scelto consapevolmente di non insistere con questa metafora, proprio per fare in modo che il linguaggio figurato non irradiasse concetti e immagini che si volevano evitare».

Il COVID come una guerra? Qualcuno ha fatto notare come nella Penisola si sia usata di più la metafora bellica anche per il coinvolgimento diretto dell’esercito, che in Svizzera non c’è stato

Altrove, l’idea che contro il COVID si stesse combattendo una guerra è invece prevalsa, trasformando il linguaggio in modo persino eccessivo.
«Sì, peraltro qualcuno ha fatto notare come nella Penisola si sia usata di più la metafora bellica anche per il coinvolgimento diretto dell’esercito, che in Svizzera non c’è stato».

A suo avviso, rispetto al francese o al tedesco, l’italiano delle istituzioni svizzere è una lingua più o meno chiara?
«Una classifica non serve e non aiuta a capire. Come ho detto più volte, ciò che sappiamo è che la lingua ufficiale di Berna, sia essa il francese, il tedesco, l’italiano o il romancio, tiene molto alla chiarezza: lo mostra il fatto che il burocratese è meno presente rispetto ad altri Paesi confinanti. Tornando all’italiano, l’utilizzo di pochi anglismi è una nostra caratteristica macroscopica rispetto all’Italia. Questo potrebbe dipendere anche dal multilinguismo elvetico: l’inglese sarebbe una lingua in più in un panorama linguistico già complesso. Per quanto riguarda le istituzioni pubbliche non soffriamo di anglofilia, e proprio il COVID lo ha evidenziato, come dimostra il dizionario stilato dalla Cancelleria federale che ha proposto numerose varianti nelle lingue ufficiali svizzere ai termini inglesi legati alla pandemia».