Musica

Cos'hanno in comune pianoforti e auto di lusso? «Artigianato e sound, ogni dettaglio è fondamentale»

Viaggio nella fabbrica Steinway & Sons di Amburgo, dove nascono i pianoforti più usati nei concerti dai più importanti musicisti al mondo e prende forma il dialogo con Bentley
Mattia Sacchi
19.12.2025 17:50

Per il grande pubblico il nome Steinway & Sons dice poco. Non è un marchio onnipresente, non firma campagne pubblicitarie aggressive e non cerca visibilità fuori dal proprio ambito. Eppure, nel mondo della musica classica, Steinway è uno standard: oltre il 90% dei pianisti concertisti sceglie un pianoforte Steinway quando si esibisce con un’orchestra. Non per contratti di esclusiva, ma per una consuetudine costruita nel tempo, fondata sull’affidabilità dello strumento e sulla prevedibilità del risultato.

Capire perché accada significa entrare in uno dei due soli luoghi al mondo in cui questi pianoforti vengono costruiti: Amburgo, nello stabilimento di Rondenbarg, operativo dal 1880 come filiale europea della casa madre di New York. È qui che siamo stati invitati in occasione della presentazione di Ultra Black e Ultra White, due nuove edizioni limitate che reinterpretano il pianoforte Steinway in chiave contemporanea, e di una collaborazione sempre più strutturata con Bentley, altro marchio che fonda la propria identità sul concetto di manifattura d’eccellenza.

Il punto di contatto tra un pianoforte da concerto e un’auto di lusso non è l’estetica né il prezzo, ma il processo. Ed è per questo che l’incontro avviene in fabbrica, non in uno showroom.

Lo stabilimento Steinway & Sons di Amburgo impiega oggi circa 500 persone e forma ogni anno una ventina di apprendisti costruttori di pianoforti. Non si tratta di una tradizione simbolica, ma di una necessità industriale: senza trasmissione diretta del sapere manuale, questo tipo di produzione non sarebbe sostenibile.

La produzione media è di circa 1.300 strumenti all’anno, suddivisi in sette modelli a coda – dal compatto S-155 al D-274 da concerto – e un modello verticale. Numeri ridotti se confrontati con altri settori industriali, ma coerenti con un processo in cui ogni strumento è trattato come un caso a sé. Un gran coda Steinway è composto da circa 12.000 elementi e ogni fase di lavorazione è concepita come una verifica: non un passaggio automatico, ma un controllo.

«Non costruiamo pianoforti in serie», spiega Guido Zimmermann, President & Managing Director di Steinway & Sons Europe. «Costruiamo strumenti che devono comportarsi in modo prevedibile, in qualsiasi sala, con qualsiasi pianista e per decenni».

Il processo produttivo comincia molto prima dell’assemblaggio. Il legno, elemento centrale dello strumento, viene lasciato essiccare naturalmente per circa due anni prima di entrare nel ciclo di lavorazione. Solo dopo inizia la costruzione vera e propria, che per un gran coda può richiedere fino a un anno di lavoro.

Il metodo è riassunto nello «Steinway System», una grammatica industriale basata su oltre 140 brevetti sviluppati nell’arco di più di un secolo. Non rivoluzioni formali, ma miglioramenti incrementali: stabilità strutturale, precisione meccanica, coerenza sonora, durata nel tempo. «Il pianoforte sembra lo stesso da 150 anni», osserva Zimmermann. «Ma è solo un’impressione. L’evoluzione avviene nei dettagli, ed è continua».

Il cuore acustico dello strumento, la tavola armonica, è realizzato in abete rosso, selezionato per le sue proprietà elastiche. Il mantello è composto da circa 20 strati di legno duro, curvati e incollati per garantire rigidità strutturale. La piastra in ghisa, che nei modelli da concerto può pesare fino a 150 chilogrammi, deve sostenere una tensione complessiva delle corde che supera le 20 tonnellate. È su questo equilibrio tra forze opposte che si gioca gran parte dell’affidabilità dello strumento.

Zimmermann insiste su un punto spesso ignorato dal pubblico: «Il nostro lavoro non è far suonare bene un pianoforte oggi. È fare in modo che suoni allo stesso modo tra venti o trent’anni».

È dentro questa cultura che nascono Ultra Black e Ultra White, presentate ad Amburgo come edizioni speciali pensate per dialogare con il presente senza alterare il DNA dello strumento. La produzione è limitata a 52 pianoforti in totale, 26 per ciascuna finitura, suddivisi tra Model B e Model D.

Ultra Black spinge la monocromia fino a renderla struttura. Il nero non è decorativo, ma totalizzante: superfici compatte, dettagli ridotti, presenza quasi architettonica. Il pianoforte diventa un oggetto che occupa lo spazio con decisione, senza ricorrere all’ornamento.

Ultra White, al contrario, lavora sulla sottrazione visiva. Il bianco riflette l’ambiente, alleggerisce la massa dello strumento e lo rende parte integrante dello spazio architettonico in cui si trova.

In entrambi i casi, il design non è un esercizio stilistico autonomo, ma una scelta funzionale. «Il pianoforte non deve distrarre», ribadisce Zimmermann. «Deve fare il suo lavoro».

Ogni strumento è dotato di SPIRIO | r, il sistema ad alta risoluzione sviluppato da Steinway che consente di registrare, riascoltare e condividere esecuzioni, anche in tempo reale tramite SPIRIOCAST. Una tecnologia che non sostituisce l’esperienza acustica, ma la estende.

«Il pianoforte resta 100% pianoforte», sottolinea Zimmermann. «La tecnologia aggiunge possibilità, non cambia la natura dello strumento».

È proprio questo equilibrio tra artigianato e innovazione a costituire il terreno comune con Bentley. A spiegarlo è Franziska Jostock, recentemente nominata Head of Communications Bentley EMEA. «Visitando la fabbrica di Amburgo», racconta, «abbiamo riconosciuto immediatamente un metodo che conosciamo bene: attenzione maniacale ai materiali, rispetto per i tempi, rifiuto dell’eccesso».

Secondo Jostock, il legame tra i due mondi non nasce dall’estetica, ma dal modo in cui legno, pelle e superfici vengono trattati. «A Crewe costruiamo auto con lo stesso approccio artigianale. I linguaggi sono diversi, ma il processo è identico».

La collaborazione tra Steinway e Bentley, chiarisce Zimmermann, ha superato la dimensione simbolica. «Abbiamo mandato i nostri tecnici a Crewe e accolto qui quelli di Bentley. Si sono confrontati su impiallacciature, lavorazione del legno, finiture, controllo qualità». Un dialogo diretto tra artigiani e ingegneri che distingue questa collaborazione da molte altre nel mondo del lusso. «Non è marketing», dice. «È manifattura condivisa».

A chiudere la serata non sono state le parole, ma il suono. Sul palco, i Piano Brothers – Dominic Ferris ed Elwin Hendrijanto – hanno messo gli strumenti alla prova. Ferris, Global Ambassador Steinway, con una carriera costruita tra grandi produzioni internazionali, ed Hendrijanto, compositore attivo tra cinema, advertising e grandi orchestre, hanno attraversato generi e registri diversi.

Il risultato è stato immediato: dinamica, risposta, profondità non come concetti teorici, ma come qualità percepibili in sala. In quel momento, fabbrica, design e tecnologia sono tornati a essere ciò che contano: le condizioni perché il suono accada. «Alla fine non vendiamo pianoforti né tecnologia - conclude Zimmermann --. Il nostro vero prodotto sono le vibrazioni. Se restano nel tempo, allora abbiamo fatto bene il nostro lavoro».