Il ricordo

Jeff Beck, l'anticonformista tra tecnica e sperimentazione

Il chitarrista inglese, scomparso a 78 anni, ha saputo innovare il linguaggio del rock
© KABIR DHANJI
Michele Castiglioni
12.01.2023 17:36

Gregory Arnold Beck, per tutti «Jeff», non era un chitarrista qualunque. Uno di quelli che diventano famosi per una hit fortunata o un album azzeccato e poi continua a ridisegnare la copia di sé stesso per il resto della carriera. E neanche è stato depositario di una tecnica sublime, di fronte alla quale gli altri non possono che cercare di imitare. Non che difettasse in tecnica e abilità, intendiamoci, ma non era un vero e proprio virtuoso. Anzi, al contrario, Jeff Beck era l’incarnazione dell’eclettismo sfuggente, dell’espressione creativa che può esistere solo con lui stesso. Inimitabile, nel vero senso del termine: non perché sia impossibile da riprodurre nell’esecuzione, ma piuttosto per la profondità della sua eterogeneità istintiva, alla base della sua espressione creativa. È la genesi di quei suoni incredibili che riusciva a tirare fuori dalla sua mente, prima ancora che dalla sua Fender che era davvero inimitabile. Il saper mettere tutte le note al posto giusto in modo inaspettato, il suo senso melodico incredibile, la gestione del volume e del tremolo, il saper costruire ogni nota in modo diverso. Si dice che il suono emergesse dalle sue mani come per magia e che fosse in grado di «tirare fuori Jeff Beck» da qualsiasi strumento prendesse in mano. D’altronde non è un caso che venisse spesso definito «uno dei migliori chitarristi di sempre» dai... migliori chitarristi di sempre.

«Jeff era in grado di canalizzare la musica dall’etere. La sua tecnica era unica. La sua immaginazione apparentemente senza limiti» ha scritto di lui l’ex compagno di scorribande Jimmy Page nel suo commiato al defunto su Instagram: un modo perfetto per definire la straordinarietà di Beck, ciò che gli ha consentito di attraversare mezzo secolo di musica percorrendoun sentiero tutto suo, creandone un nuovo tratto ad ogni album, collaborazione, soluzione espressiva. Cominciando da quegli Yardbirds nei quali raccolse il testimone di un certo Eric Clapton, andatosene sbattendo la porta e portandoli a sperimentare soluzioni inedite, a partire proprio dalle tinte sonore della sua chitarra, processata attraverso delay, wah, fuzz e qualsiasi altro «modificatore del suono» fosse presente sul mercato. In questo modo, pur in un solo album, Roger the Engineer (e una manciata di interventi nei due precedenti), Beck piantò deciso la sua bandiera stilistica a metà degli anni ’60, costringendo tutti gli altri chitarristi a confrontarsi con lui (similmente a quanto avvenne poco più tardi con Hendrix o, qualche anno dopo, con Holdsworth e Van Halen). Ma è poi con gli anni ’70 che la sperimentazione e la ricerca sonora diventano cifra stilistica imprescindibile, andando a consolidare definitivamente la figura di Beck come geniale anticonformista del modo discografico, anche nelle decisioni professionali, come dimostra il suo celebre rifiuto all’offerta di entrare nei Rolling Stones per mantenere la propria indipendenza creativa.

E ora a noi non rimane che continuare a fare tesoro della sua opera, consapevoli che un Jeff Beck non è sostituibile, ma può continuare ad essere un’ispirazione per altre generazioni di acrobati della sei corde, poiché la qualità della sua eredità è rara quanto lo è stato il suo talento.