«La calda risposta del pubblico è fondamentale per i musicisti»

«Vogliamo che il pubblico sia talmente immerso in questa esperienza da poter poi raccontare agli altri di aver vissuto una notte di musica così intensa da non poterla paragonare a nessun disco o a un concerto di nessun altro». Questo è il motto, molto eloquente, che campeggia sulla pagina web dei Take Six, uno dei più celebri gruppi vocali al mondo. Descrive in modo efficace l’impatto che la band vuole avere sul proprio pubblico.
Claude McKnight, Mark Kibble, Joel Kibble, Dave Thomas, Alvin Chea e Khristian Dentley sono una squadra molto solida e ben affiatata: nel loro carniere hanno ben dieci Grammy, racimolati in quarant’anni anni di intensa carriera. La loro caratteristica principale è nel loro sound «a cappella», di canto corale, cioè, che non utilizza strumenti di accompagnamento. Fanno tutto loro, insomma, e lo fanno in modo unico al mondo. Abbiamo intervistato il loro leader, Claude McKnight, per chiedergli di parlarci dei loro attuali progetti e della particolarità del loro gruppo.
Claude McKnight, vi abbiamo visto in varie occasioni in Ticino, negli ultimi anni, sia ad Estival, sia a JazzAscona. In cosa sarà diverso il vostro concerto di quest’anno?
«Stiamo lavorando molto intensamente al materiale del nostro prossimo album, che uscirà presumibilmente all’inizio del prossimo anno. Il disco si chiamerà Rhapsody, e fa riferimento evidentemente alla Rhapsody in Blue di George Gershwin, ma nel senso che proporrà un certo numero di brani standard, di classici del jazz che vogliamo interpretare in modo nuovo. È una scelta particolare, che è anche stata operata in funzione del fatto che ci avviciniamo al quarantesimo di esistenza del nostro gruppo e ci pareva importante ripercorrere un po’ il repertorio che abbiamo attraversato in questi anni, da quando abbiamo registrato il nostro primo album. Quindi nel concerto proporremo in gran parte questi pezzi, su cui stiamo lavorando e che stiamo ancora mettendo a punto prima di entrare in sala di incisione».
Una cosa che incuriosisce nell’economia di un gruppo come il vostro è sapere come si costruiscono gli arrangiamenti. Viene da pensare che possa mancarvi qualche strumento «vero»: di quale in particolare sentite la mancanza?
«Domanda curiosa. Non sentiamo la mancanza degli strumenti ritmici come il basso o la batteria, perché riusciamo sempre ad integrarli nell’arrangiamento semplicemente imitandoli. Quindi anche se possono sembrare strumenti fondamentali, non ci mancano. A volte, invece, sento la mancanza di strumenti armonici. Le armonie che possiamo realizzare con le voci sono necessariamente limitate, e invece un pianoforte o una delle tastiere potrebbero arricchire molto il tessuto musicale dei brani. Direi che sento la mancanza proprio delle tastiere, perché possono contribuire con la loro ricchezza timbrica, con i loro suoni particolari, a fornire dei colori alle composizioni».
Siete un gruppo che viene annoverato tra le formazioni più importanti nell’ambito del jazz vocale. In una struttura complessa come quella di un gruppo vocale, come si integra l’improvvisazione, tipica del jazz?
«È una questione complessa. Di fatto, per una band come la nostra le aree di manovra sono necessariamente limitate. In generale, direi che non rimane molto margine per l’improvvisazione. Se si crea uno spazio, generalmente è limitato alle zone di competenza delle voci più alte, la prima o la seconda. Ma non molto di più. E d’altra parte bisogna dire che tutto dipende anche dalla situazione specifica, dal rapporto che si crea durante il concerto».
Per voi quindi è molto importante il momento dell’esibizione live?
«Sì certo, moltissimo, per noi la risposta del pubblico è un elemento fondamentale. Direi che la riceviamo sotto forma di energia: è un’energia che ci carica e ci spinge. E in certe situazioni può anche arrivare a modificare i piani, i programmi. E allora lì si apre lo spazio anche per l’improvvisazione».