Lana Del Rey, la regina del «dream pop

Facile giudicare un libro (e un disco) dalla copertina. Altrettanto semplice pregiudicare un’artista dal silicone, ma fin dalle prime battute Lana Del Rey voleva far capire di non essere solo un paio di labbra a canotto. Se Born to die conteneva qualche sprazzo (Video games, soprattutto), i successivi Ultraviolence e Honeymoon la trasformavano nell’inattesa regina del dream pop, con atmosfere che non sarebbero dispiaciute a Lynch e Badalamenti (anzi, cosa NON ci faceva Lana nella terza stagione di Twin peaks?). Lust for life, titolo scippato a Iggy Pop – ma tutto quello che fa deriva da qualcos’altro: non è così per tutti, del resto? – ha proseguito su questo cammino. La sorridente copertina da vecchio album di Dolly Parton non lasciava presagire i perversi piaceri all’interno: un disco torrido come un’estate madida di melodie appiccicose. Norman fucking Rockwell pubblicato due anni fa è stato giudicato dalla critica come il suo lavoro più completo e, finalmente, critica e pubblico sono d’accordo. Mentre un sito solitamente avaro nei giudizi come Pitchfork le assegnava un altissimo 9.4 (Random access memories dei Daft Punk, per fare solo un esempio, si ferma a 8.8, la competitor Taylor Swift, con la doppietta Folklore e Evermore si è dovuta accontentare di un 8 e di un 7.9), il pubblico la spediva in testa alle classifiche.

Il lockdown ha reso Lana iperproduttiva. Quindi non solo è appena uscito un nuovo album, Chemtrails over the country club, ma ce n’è già un altro all’orizzonte previsto per luglio (si chiamerà Rock candy sweet). Questo contiene brani intimistici cantati con la consueta voce trasognata, che fin dall’iniziale White dress assume un timbro da grido sussurrato (o da sussurro gridato, come si preferisce). Le «scie chimiche sul country club» sono quelle che sovrastano una vita da ricche annoiate hollywoodiane, uno scenario che piacerebbe a John Waters. I brani scorrono senza soluzione di continuità, creando una suite pianistica con ritmi appena accennati (Tulsa Jesus freak), grandi melodie (Let me love you like a woman), un deciso riferimento a Lynch (Wild at heart è il titolo originale di «Cuore selvaggio» ed è una ballata che piacerebbe sicuramente ai protagonisti Sailor e Lula), ma tutti i brani meritano menzione, fino alla conclusiva For free, un omaggio a Joni Mitchell condiviso con Zella Day e Weyes Blood. Quasi interamente composto con il produttore Jack Antonoff è un disco da tramonti che non va confuso con il pop banale e sbarazzino che tante star vanno proponendo.
Dischi novità
Måneskin – Teatro d’ira, vol. 1

Il disco della consacrazione o della demolizione? Dopo Sanremo il quartetto romano sapeva che avrebbe raggiunto un pubblico più vasto e la vittoria ha moltiplicato esponenzialmente la moltitudine di ascoltatori. Se “Fuori di testa” è il brano più duro, le altre sette canzoni alternano luci e ombre, momenti melodici ad altri al calor bianco, italiano e inglese. Da preferire in quest’ultima veste perché, almeno, si può soprassedere sui testi, anche se non sulla pronuncia. Per i detrattori assoluti: non è peggio di tanto pseudo rock in circolazione. Detto questo... ci sarà pure un volume 2.
Sting – Duets

Un disco che se non ci fosse potrebbe tranquillamente non esserci. Una raccolta disordinata e incompleta dei duetti realizzati da Sting nel corso della sua lunga carriera testimoniando, più che altro, che il biondo ex Police non sempre sa scegliersi i partner migliori, vedi una versione troppo easy di “Fragile” cantata da Julio Iglesias o una troppo pop di “Little something” con Melody Gardot, una davvero eccessiva di “We’ll be together” con Annie Lennox che fanno da contraltare a una raffinata “My funny Valentine” con Herbie Hancock o a una “L’amour c’est comme un jour” con Aznavour che sarebbe perfetta se il pungiglione non azzardasse il francese. Duetto più celebre “It’s probably me” con Clapton, quello nuovo è “September” con Zucchero (aveva tradotto “Mad about you”, ricordate?), non irresistibile.
Marco Albonetti – Romance del diablo

Tra tutti gli innumerevoli tributi ad Astor Piazzolla che si moltiplicheranno in questo 2021 del centenario del grande compositore e bandoneonista argentino, segnaliamo quello del sassofonista classico Marco Albonetti che interpreta pagine celebri come le quattro “Estaciones porteñas”, “Oblivion”, l’immancabile “Libertango” con grande originalità e rispetto, accompagnato dagli archi dell’Orchestra filarmonica italiana e dal pianoforte di Alessandra Gelfini che, da anni, conduce una personale ricerca sul musicista e sul tango. Musica più da ascolto che da ballo, che mette in risalto le numerose sfumature delle composizioni del “gato”.