La testimonianza

L'esperienza dell'insegnamento musicale nella martoriata Palestina

La flautista Adele Posani che da un decennio si dedica all'insegnamento a Gerusalemme, Betlemme, Ramallah e Nablus, parla delle problematiche legate al suo lavoro ma anche della speranza che la musica possa rappresentare una fonte di dialogo
Omar Zoboli
02.06.2025 06:00

La musica come fonte di dialogo culturale tra i popoli. È la missione di Adele Posani, musicista, insegnante di flauto, musica da camera, teoria musicale, insieme di fiati e capo del dipartimento di fiati all’Edward Said National Conservatory of Music (ESNCM) in Palestina, nelle sedi di Gerusalemme, Betlemme, Ramallah e Nablus che ci racconta  della drammatica situazione in Palestina riferendo il quotidiano del suo lavoro e degli spostamenti, permettendoci di farci un’idea di come era (sì, perché non si sa oggi cosa sarà rimasto di ciò che racconta, visto che da qualche mese è stata costretta a lasciare quelle terre e a tornare in Italia) operare laggiù.

Può riassumerci come era organizzato l’insegnamento della musica sul «territorio palestinese» prima dello scoppio della nuova guerra il 7 ottobre 2023?
«Premetto di non essere mai stata nella striscia di Gaza, in quanto è diventato molto difficile ottenere dei permessi dopo l’operazione Margine di Protezione nell’estate del 2014, ed io sono arrivata in Palestina a settembre del 2015. Per quanto riguarda la Cisgiordania, posso dire che le maggiori scuole di musica, che insegnano anche, o esclusivamente, musica classica sono l’Edward Said National Conservatory of Music (ESNCM ), la fondazione Barenboim Said, il Kamandjati, l’associazione Sounds of Palestine. C’è inoltre Amwaj, un coro di voci bianche che svolge attività soprattutto a Hebron e Betlemme».

 Che generi di musica si insegnano?
«Oltre al Conservatorio ci sono molte altre scuole in cui si insegna per lo più musica araba: quindi oud, tabla o percussioni in generale, buzuq, qanoun, nay, canto, ma anche clarinetto – molto frequente nella musica araba – e il violino. Queste scuole sono più piccole e meno conosciute, rispetto a quelle che ho nominato prima ma svolgono un ruolo cruciale nel mantenere viva la tradizione musicale palestinese. La musica tradizionale, come anche la danza tradizionale, la Dabke, sono molto richieste in tutte le cerimonie, matrimoni, fidanzamenti, festeggiamenti vari, anche quelli per figure di spicco che escono di prigione e tornano a casa. Per quanto riguarda l’insegnamento della musica classica l’ESNCM è in assoluto l’istituzione musicale meglio radicata nel territorio, fino al 2020 contava 5 sedi principali (Gerusalemme, Betlemme, Ramallah, Nablus, Gaza), più una struttura a Birzeit, villaggio dove ha sede la maggiore università in Palestina, in cui si svolgevano i progetti più grandi, e in più organizzava quelli che si chiamavano “outreach programs” in cui alcuni insegnanti di diversi strumenti si recavano a Hebron, a Gericho, a Jenin per svolgere attività di propedeutica musicale o anche di regolare insegnamento strumentale. Per quello che ho potuto vedere io personalmente e tra i racconti dei colleghi che erano lì negli anni precedenti il mio arrivo, posso dire che questa istituzione ha funzionato bene tra il 2010 e il 2020».

E oggi cosa accade?
«Ci sono problemi di carattere organizzativo ma soprattutto logistico. È difficile rendersi conto da qui cosa significhi gestire un’istituzione di queste dimensioni dislocata su un territorio sotto occupazione militare».

Ovvero?
«Facciamo un esempio: l’accesso alla sede di Gerusalemme, per quanto questa si trovi nel cuore di Gerusalemme Est, a pochi passi dalla Porta di Damasco e dalla via Salah al Din, poiché tutta la città è sotto il controllo israeliano con una annessione de facto, è illegale per la maggior parte degli insegnanti risiedenti in Cisgiordania. Questo significa che se un insegnante di qanoun è di Betlemme e a Gerusalemme hanno la classe di qanoun scoperta, costui non può andare a Gerusalemme per coprire quella classe, semplicemente perché non ha il permesso per passare il checkpoint. I primi due anni io insegnavo anche nella sede di Gerusalemme, due giorni a settimana, poi dal 2017 Israele ha smesso di rilasciare visti per accedere alla città e la stessa procedura che gli anni precedenti mi aveva fatto ottenere un visto che mi permetteva di passare i checkpoint, improvvisamente mi relegava solo in Gisgiordania e ho dovuto smettere di insegnare a Gerusalemme. Progressivamente è diventato sempre più difficile ottenere visti e permessi anche per gli internazionali: all’inizio si riusciva a rinnovare il visto turistico semplicemente uscendo e rientrando dal Paese, poi questo è diventato sconveniente perché si rischiava un “ban” (divieto di entrare nel Paese per 10 anni); prima una lettera del tuo Consolato ti permetteva di ottenere un visto a entrate multiple, poi è diventato un permesso di residenza solo in Cisgiordania che decade nel momento in cui si lascia il Paese... Questi sono i problemi che un musicista deve affrontare dopo aver accettato un lavoro in un posto così difficile. Continuità didattica? Impossibile».

Anche per la Fondazione Barenboim-Said?
«Sì, nonostante sia nata con la West Eastern Divan Orchestra, un’orchestra formata da musicisti sia israeliani che palestinesi, adesso è invece una scuola di musica con sede a Ramallah, in cui si insegna solo musica classica occidentale. La Fondazione si propone comunque ancora come unico ponte per giovani musicisti palestinesi che vorrebbero proseguire con la carriera musicale e studiare in Europa, essendo ben collegata con l’Accademia Barenboim Said di Berlino e la Fondazione Barenboim Said di Siviglia».

Da ormai tanto tempo si parla di una tregua del conflitto in corso  che ha provocato nelle aree palestinesi tanta distruzione. Pensa che lì sia rimasto qualcosa ancora vivo, persone che possano contribuire alla ricostruzione della Palestina, che sosterrebbero ancora l’utopia di riproporre la pace, almeno nel far musica insieme?
«Intanto: in questi mesi di guerra, si è continuato a fare musica a Gaza. A Khan Younis si è formato un cospicuo gruppo di insegnanti del Conservatorio, che ha iniziato attività di gruppo, per lo più cantando, anche se ho visto dai video che avevano solo una chitarra, un violino e un paio di oud (liuti arabi). Questo fa pensare che la voglia di fare musica non morirà; finché ci saranno delle persone, ci sarà musica. Non so cosa possa significare la pace in questa terra, non so che significato abbia in questo contesto».