La recensione

Måneskin, un blockbuster per continuare il sogno

Diciassette brani, ventitré coautori, sette produttori e molti ospiti: sono i numeri di «Rush» il nuovo attesissimo album del quartetto romano – Una produzione quasi hollywoodiana per consolidare, con grande cura ma senza particolare originalità, il momento d’oro sul mercato internazionale
I Måneskin, ossia Ethan Torchio, Thomas Raggi, Damiano David e Victoria De Angelis.
Alessio Brunialti
25.01.2023 21:30

Rush! dei Måneskin è il disco del momento, quello di cui bisogna parlare, quello da ascoltare e sul quale è necessario avere un’opinione (possibilmente tranchant, da condividere su tutti i social per bearsi delle reazioni contrarie). Ma la band romana ci ha lasciato alle spalle, con le nostre discussioni sul «ritorno delle chitarre nel rock» e su quanto possa essere effimera la durata del loro successo. Giustamente puntano a consolidarsi sul mercato internazionale, forse perché pensano che un sogno così non ritorni mai più. Ecco, allora, un lavoro confezionato impeccabilmente da un team mostruoso: ci sono non meno di sette produttori e ben 23 coautori sparsi per i ben 17 brani, tutto senza contare i quattro componenti dell’ensemble.

Tutto questo spiego di forze per costruire un ideale suono Måneskin che ben si esprime nell’iniziale Own my mind, che in pratica è una riscrittura di I wanna be your slave mentre il video ricorda molto i White Stripes. I filmati ricoprono un ruolo importante. Senza clip Gossip non avrebbe lo stesso impatto, mentre la band gioca la carta della critica sociale sfoderando un superfluo Tom Morello (alla faccia di quelli che negavano che Zitti e buoni fosse influenzata dai Rage Against The Machine...). Timezone si potrebbe definire una ballad arrabbiata: sarebbe un pezzo come tanti altri, ma la voce di Damiano David a fare la differenza.

Bla bla bla è un omaggio a Greta Thunberg? Un duro attacco all’indolenza politica? Versi come «I wanna f*ck, let’s go to my spot, but I’m too drunk and I can’t get hard» smentiscono vigorosamente questa ipotesi. Il video è tutto per Damiano come quello di Baby said ruota attorno alla bassista Victoria De Angelis. Gasoline è invece una figlia di Sweet dreams (provate a cantarcela sopra, almeno all’inizio), rock monotonale da saltare sul posto. Feel è un pezzo «alla Kravitz», mentre il video è ancora tutto del cantante, ignudo con un CENSORED a coprire le pudenda, perché va bene essere trasgressivi, ma poi le piattaforme ti bloccano. Don’t wanna sleep è un altro brano in quarti pensato per essere danzato (il mantra «Dance dance dance dance until I die» non lascia scampo). Kool kids è uno strano esperimento al limite della parodia: musicalmente guarda alla new wave (il modello sembra essere Digital dei Joy Division) e Damiano azzarda un accento british in «fully Rotten mode». If not for you, ballata numero due, questa volta acustica, aprirà il tempo dei limoni ai concerti. Read you diary è un altro brano pensato per i disco pub.

Con Mark Chapman si entra poi in un trittico italiano che prosegue con La fine e Il dono della vita: ci guadagnano i testi, più personali, ma musicalmente non cambiano il tiro. Mammamia è una di quelle espressioni che tutti in tutto il mondo conoscono (non solo grazie alla quasi omonima canzone – musical – film degli Abba, ma anche per Bohemian rhapsody). Che dire? Ben giocata. Supermodel, con un riff alla Smell like teen spirit si fa notare più per il video che strizza l’occhio al Mulholland drive di Lynch e perfino a Eyes wide shut di Kubrick (la scena dell’orgia, ça va sans dire), naturalmente con le debite proporzioni. Chiude The loneliest, con un funerale in stile November rain, altra ballatona.

In conclusione: se questo disco fosse un film, sarebbe un blockbuster della Marvel, con tutti i tasselli al posto giusto per piacere a tutti, con la critica che storce il naso – ma a loro, per dirla con le loro parole, che gliene f*ck? – e i ragazzini che applaudono in massa mentre scorre lo sterminato elenco di nomi sui titoli di coda.