Il compleanno

Mick Jagger, ottant’anni di trasgressione a tempo di rock

Il cantante e co-leader dei Rolling Stones taglia quest’oggi l’importante traguardo – Personalità straripante, unica e inimitabile, ha segnato in modo indelebile oltre mezzo secolo di musica e cultura tra ribellioni, provocazioni e una straordinaria dose di autostima
«Sir» Michael Philip Jagger è nato a Dartford, nel Kent, il 26 luglio 1943. Assieme al chitarrista Keith Richards ha fondato nel 1962 i Rolling Stones di cui è tutt’oggi il leader carismatico.
Alessio Brunialti
26.07.2023 06:00

«Sono libero di fare quello che voglio in ogni momento», «Te l’ho detto una volta, e te l’ho ripetuto, ma non hai mai ascoltato il mio avvertimento, non hai fatto molto per compiacermi e con quello che sai dovrebbe essere facile», «Non parlo dei vestiti che indossa, guardate quella ragazza stupida», «Sta sotto i piedi, quella ragazza che un tempo mi dominava», «Sono nato nel fuoco incrociato di un uragano», «Hey, tu, scendi dalla mia nuvola» e, naturalmente, «(Non posso avere nessuna) Soddisfazione» perché «Il mio nome è disordine, griderò, urlerò, ucciderò il re e inveirò contro i suoi servitori».

Michael Philip Jagger da Dartford, Kent, si presentava così, ormai 60 anni fa, agli adolescenti inglesi, ma anche e soprattutto alle loro madri e ai loro padri, accusando le prime di tirare avanti a forza di pillole («le piccole aiutanti di mammina») e gli altri di essere degli ipocriti bigotti. Si potrebbe pensare che se si trattasse di un artista contemporaneo, perirebbe subito sotto gli strali del politically correct, ma non è così. Oggi come allora, quei testi e quegli atteggiamenti anticonformisti susciterebbero riprovazione, orrore perfino, interrogazioni parlamentari, denunce, ma alla fine tutto rientrerebbe.

Oggi sir Mick compie 80 anni ed è considerato un monumento nazionale, cavaliere dell’ordine dell’Impero Britannico e quando si ricordano le sue nefandezze, c’è sempre un sottile piacere perché, diciamolo, i sudditi di Sua Maestà adorano essere sferzati. Forse è tutta colpa del blues, la musica che il giovane Jagger e il suo amico d’infanzia Keith Richards, ritrovato nel pieno dell’adolescenza adoravano, al pari di Brian Jones, il ragazzo con sei figli illegittimi alle spalle prima di raggiungere la maggiore età, al cui confronto, agli inizi, i Glimmer Twins sembravano delle educande.

La «musica del diavolo» è piena zeppa di allusioni sessuali più o meno velate, di donne che se non fanno come viene loro detto si prenderanno una sacrosanta ripassata dai loro uomini, uomini che sono sempre dei machi dagli smisurati appetiti sessuali. Quando decise di abbandonare quella che poteva essere una discreta carriera scolastica, che lo vedeva studente intelligente e dai buoni voti, Mick lo fece per il blues, per il palco, forse perché sentiva esplodere dentro di sé quel narcisismo di cui tutte le rockstar devono essere intrise per riuscire a sfondare davvero. Perché bisogna aver coraggio, faccia tosta e tanta autostima per mettersi a cantare «chiamatemi Lucifero», ancora più di «sono un piccolo galletto rosso», ma anche «cosa può fare un povero ragazzo della classe operaia se non unirsi a una band rock’n’roll» provenendo da una famiglia non esattamente proletaria.

Nell’economia dei Rolling Stones, tutti gli altri sono sempre stati relegati a ruoli di semplici comprimari. Il fondatore Jones rimpiazzato senza rimpianti poco prima della morte dopo un’autentica azione di mobbing; il sostituto Mick Taylor che si vide negare i crediti compositivi fino alla fuga in favore del più accomodante Ron Wood; Bill Wyman quasi dimenticato dopo la sua fuoriuscita; Charlie Watts... «Non possiamo andare avanti senza Charlie. Questo è il gruppo di Charlie. Niente Charlie, niente Rolling Stones» e invece eccoli ancora in tour perché Charlie avrebbe voluto così. Tutti sono rimpiazzabili. Tranne Jagger. E Richards. E questa cosa a sir Mick un po’ secca, da almeno mezzo secolo. Da quando lui, ribelle sì, ma con la vestaglia da camera, le letture colte dell’Amante di lady Chatterly e Il maestro e Margherita da trasformare in Lady Jane e Sympathy for the devil, le pin up del jet set collezionate a centinaia (lui dice migliaia) si è trovato a fare i conti con la tossicodipendenza del suo gemello non sempre così scintillante. Negli anni Ottanta, ormai lontanissimi, cercò di lasciarselo alle spalle tentando la carta di una carriera solistica che evidenziò che non c’era spazio per una rockstar Jagger, ma solo per il cantante dei Rolling Stones, quello che ballava forsennatamente correndo per chilometri sul palco (figlio di un ginnasta, la mattina si tiene in forma con una corsetta, mentre il suo compare si svegliava nella stanza di chissà chi dove era arrivato chissà come).

Sicuramente lo irrita, con la stessa stizza che i benpensanti negli anni Sessanta avevano per lui, dover constatare che per i critici e anche per i severi seguaci della sua (tutta sua, secondo lui) band, il vero fulcro non è lui, ma «Keef the riff». Ma può voltarsi a guardare indietro, anche se raramente lo fa, contando i dischi – non pochi sono capolavori che rimarranno nella storia – le conquiste, i soldi. Certo, c’è qualche crepa nel suo monumento: se non è riuscito a essere un cantante di successo in proprio, anche la sua carriera cinematografica non è mai decollata del tutto. Era, ed è, semplicemente «troppo Mick Jagger» per essere qualcun altro. Del resto, un uomo le cui labbra e lingua sono un marchio di fabbrica (dice che non sono sue, ma mente) è condannato a essere sé stesso. Anche oggi che la ragnatela di rughe che incornicia il suo volto mostra tutti i segni di quei sei decenni su otto vissuti oltraggiosamente non rinuncia a ballare a petto nudo perché il tempo, che non aspetta nessuno, è sempre e comunque dalla sua parte.