La recensione

Pulp, un ritorno brillante che dà nuova linfa al mito

Una delle band britanniche più iconiche degli ultimi (quasi) 50 anni fa il suo ritorno discografico, sempre guidata dall’istrionico Jarvis Cocker, con un nuovo album «More.» che sancisce il termine dell’ultraventennale iato discografico cominciato dopo la pubblicazione di «We love life» nell’ormai lontano 2001
Alessio Brunialti
11.07.2025 06:00

C’è reunion e reunion. Ci sono quelle fatte solo per soldi e quelle animate dalla sincera volontà dei riuniti di dire e dare ancora qualcosa tutti assieme. E poi ci sono reunion di formazioni iconiche (pensiamo all’ultimo giro di valzer, diabolico, dei Black Sabbath originali) e altre dove i musicisti di contorno sono quasi superflui (chi c’è negli Oasis oggi? Qualcuno si è accorto che oltre ai fratelli Gallagher è nella line – up anche il cofondatore Paul Arthurs?). Poi ci sono casi in cui il leader e autore principale nonché frontman ha avuto una carriera solistica, magari brillante, ma andata un po’ in stallo in questo momento confuso per l’industria musicale e, quindi, decide di passare all’incasso richiamando i vecchi compari solo per resuscitare una sigla remunerativa. Ecco, il ritorno dei Pulp potrebbe appartenere a questa ingloriosa categoria, con Jarvis Cocker che in questi anni ha sempre avuto visibilità mentre gli altri sono rimasti ai margini. Quali altri, poi? La band l’ha fondata lui nel lontano 1978 alla tenera età di 15 anni: nessuno dei musicisti che lo accompagnavano allora era ancora presente negli anni del successo che hanno meritoriamente collocato la band nel novero dei nomi più importanti del brit pop. C’era già stata una reunion, va detto, tra il 2011 e il 2013, ma aveva fruttato solo dei concerti. In questo caso i Pulp hanno anche pubblicato un disco.

Un signor disco, diciamolo subito, sfatando in un batter d’occhio tutte le critiche negative che si possono pensare per questa operazione. Con Cocker sono la tastierista Candida Doyle e il batterista Nick Banks, presenti già negli anni Ottanta, e il chitarrista Mark Webber, entrato in formazione in tempo per Different class? del 1995 (era il presidente del fan club della band: una bella carriera). Ed è davvero uno sforzo di gruppo e non un disco del leader che sfrutta la sigla più remunerativa.

Jarvis ha scritto testi per musiche nate da sforzi collettivi con risultati davvero sorprendenti. A iniziare da Spike island, un brano allegro, almeno in superficie, scelto per aprire questo viaggio nell’inaspettato. Perché ogni canzone fa storia a sé, dalla complessa Tina, davvero camaleontica, alla conclusiva, elegiaca, A sunset, passando per la sbarazzina Grown ups, la deliziosa Farmers market, l’allusiva My sex, Got to have love che si ispira alla disco 70, mentre, in contrasto, Partial eclipse potrebbe essere una cover dell’ultimo Nick Cave.

Sicuramente il ritorno più interessante e riuscito degli ultimi anni.