Niccolò Castelli: «La mia generazione colpita dall’attentato di Marrakech»

Non è stata un’impresa facile da portare a termine, ma Niccolò Castelli (nella foto sotto) ce l’ha fatta. Dopo sei anni di lavoro, il suo secondo lungometraggio Atlas è finalmente concluso e mercoledì prossimo, 20 gennaio, non solo aprirà ufficialmente le 56. Giornate di Soletta (che si terranno online) ma sarà trasmesso in contemporanea in prima serata dalle tre seconde reti SSR. Una sfida non da poco, che il 38.enne regista ticinese affronta conscio dei rischi e delle opportunità che offre.

Atlas prende spunto dal terribile attentato terroristico di matrice jihadista che il 28 aprile 2011 fece saltare in aria il caffè Argana, sulla piazza di Marrakech, provocando 17 morti tra cui 3 giovani ticinesi. Che messaggio veicola il film rispetto a questi avvenimenti?
«Se c’è un aspetto positivo di questa gestazione molto lunga, è il fatto che mi ha permesso di lasciar sedimentare molto la storia, arrivando a un’idea più profonda rispetto all’idea iniziale. Atlas parla soprattutto della paura del diverso e di come ci rapportiamo nei suoi confronti. Quando penso ai primi incontri che ho avuto con Morena, la ragazza sopravvissuta all’attentato, e con i genitori di Cristina che invece non ce l’ha fatta, era un aspetto di cui già discutevamo, ma eravamo appunto nel 2011: non c’erano ancora stati gli attentati a Charlie Hebdo, al Bataclan o a Bruxelles. Sempre di più si è quindi passati da una paura esterna - lontana comunque dalla nostra realtà - a una paura sempre più vicina. Un cambiamento di prospettiva che ha fatto sì che questa paura diventasse anche mia, soprattutto durante il periodo che ho passato a Bruxelles per scrivere la sceneggiatura in collaborazione con Stefano Pasetto, italiano che vive in Belgio. Uno stato d’animo di cui però non volevo essere vittima e con Atlas ho cercato di capire perché abbiamo paura dell’altro e come possiamo entrare in contatto con chi è diverso da noi. Spero che il film riesca a suscitare questa idea e a farci capire quali sono le paure che ci accomunano».

Un messaggio positivo dunque?
«Positivo ma non buonista. Non si tratta di dire “siamo tutti amici, siamo tutti uguali” perché non è così. Siamo granelli di sabbia che vivono sullo stesso pianeta e ognuno influenza l’altro, anche in modo impercettibile, ed è per questo che dobbiamo conoscerci reciprocamente, per essere più liberi. Oggi nonostante tutto mi sento più libero che nel 2011, perché quella era una libertà individualista, che ti ingabbiava, mentre ora penso che bisogna concedere una parte di noi stessi per avere uno scambio reciproco con l’altro».
Come si è sviluppato il progetto?
«Al momento dell’attentato stavo iniziando le riprese di Tutti giù (il suo primo lungometraggio: ndr.) e non avevo il tempo di occuparmene ma ho sentito subito che si trattava di un fatto molto importante, soprattutto per la mia generazione, e ho iniziato a prendere delle note su un calepino. Poi nel 2013 mi sono presentato da Villi (Hermann, il produttore per la Imagofilm in collaborazione con RSI: ndr.) con una paginetta e da lì è iniziato il lungo processo di scrittura, dapprima a Monaco di Baviera per un anno e poi come detto a Bruxelles. È stato un percorso molto stimolante, con molti scambi tra di noi. I tempi si sono poi allungati a causa dell’entrata in scena del coproduttore belga e di quello italiano e abbiamo effettuato le riprese tra il 2018 e il 2019, senza poter purtroppo tornare in Marocco, dopo i sopralluoghi che non ci avevano creato problemi, a terminare il film, con le scene della scalata nella catena dell’Atlas, poiché all’ultimo momento ci è stato negato il permesso da parte del governo, per motivi non del tutto chiari, ma non legati alle scene che avremmo voluto girare».
Ha effettuato il montaggio a Roma, con Esmeralda Calabria, e la postporoduzione visiva e sonora in Belgio: è stato difficile con la pandemia?
«Adesso che il film è finito mi dico che questa situazione difficile ci ha anche portati a trovare soluzioni interessanti, sia dal punto di vista narrativo che cinematografico. In questo senso il fatto di non aver potuto andare in Marocco ci ha obbligati a ripensare l’intera struttura del film e ora posso dire che è stato un bene, anche se per mesi mi sono scervellato alla ricerca di tutte le soluzioni possibili con momenti davvero difficili. Credo che la pandemia ci stia insegnando a dover pensare un cinema anche un po’ più povero nel senso positivo del termine ed è quello che mi piacerebbe fare in futuro, senza però rinunciare a lavorare con professionisti che vengono da varie parti d’Europa e anche dal Ticino».

Il momento dell’attentato si vedrà?
«Sì, l’abbiamo ricostruito in una vecchia centrale elettrica vicino a Trento. C’era la necessità di mostrare il momento della sofferenza, del trauma, per dare allo spettatore una sensazione anche fisica molto forte, che ti rimane dentro per tutta la durata del film. Abbiamo combinato effetti speciali tradizionali artigianali ed effetti speciali digitali avveniristici: un’esperienza inedita e molto interessante per me».
Ha collaborato ancora una volta con il direttore della fotografia Pietro Zürcher: com’è andata?
«Discutendo abbiamo capito subito che i paesaggi emozionali del film dovevano rispecchiare, o essere in contrasto, con gli stati d’animo della protagonista. Abbiamo così suddiviso in “stagioni” tutto il suo percorso, cercando di riportarlo in chiave visiva, anche a seconda delle ambientazioni. È un lavoro molto sottile ma che nel film credo si noti e crei emozioni in più, anche perché non ci sono troppi dialoghi».
Ma c’è molta musica?
«Sì, l’amore per la montagna è il pilastro più importante nella vita della protagonista, la passione per cui vale la pena vivere. E la musica rappresenta la stessa cosa per Arad, l’immigrato che incontra (interpretato da Helmi Dridi: ndr.). Non volevamo però una musica nostalgica, etnica, per non cadere nello stereotipo. Abbiamo così incontrato Karim Baggili, musicista belga di origini georgiane e gitane, che suona l’oud, uno strumento arabo, con alle spalle un background tradizionale ma che usa anche l’elettronica, la chitarra elettrica e i distorsori. La scena del concerto è così diventata la scena-chiave».
Un consiglio per chi mercoledì prossimo vedrà Atlas in tv?
«È un film che va seguito con attenzione, soprattutto all’inizio. Eviterei di stirare mentre lo si guarda... Lo spettatore deve cercare di seguire le emozioni dei personaggi per farsi coinvolgere. Non è il classico film da prime time insomma ed è una scelta molto coraggiosa anche da parte della SSR».

La protagonista: Matilda De Angelis
«Matilda De Angelis (nella foto sopra), che interpreta Allegra la protagonista di Atlas, mi è stata proposta ai primissimi casting a Roma e mi era piaciuta subito, anche se allora aveva fatto solo un film Veloce come il vento. - ci dice Niccolò Castelli - Purtroppo però aveva già diversi impegni in programma e sembrava non fosse disponibile neanche per un provino. Poi il caso ha voluto che abbiamo ritardato di sei mesi le riprese, avevamo già un gruppo ristrettissimo di candidate per il ruolo di Allegra, frutto di una sessantina di provini, e mi è tornata in mente Matilda. Sono andato a Roma per incontrarla e mi sono reso conto subito che lei avrebbe potuto dare molto a questo personaggio che è in ogni inquadratura del film e alla sua età, 25 anni, reggere questo peso non è facile. Penso che non ci siamo sbagliati perché la stessa scelta l’hanno poi fatta tra gli altri Susanne Bier per la serie The Undoing - Le verità non dette e Sergio Castellitto per Un drago a forma di nuvola. Non è un’attrice tecnica, di quelle uscite dalle scuole, ma una persona molto intelligente e molto sensibile, che capisce le scene e le vive. Ed è stato importante aver avuto molto tempo per le prove con gli altri interpreti, perché lei è al centro di tutti i rapporti personali che costellano il film».