L'intervista

«Non diamo alle Big Tech il potere di decidere il futuro dei ragazzi»

Valdo Pezzoli, pediatra dello sviluppo e già primario all’Ospedale Civico: «Siamo di fronte a un rapporto di quasi totale dipendenza dai social»
© KEYSTONE/Christof Schuerpf
Dario Campione
18.03.2024 06:00

Valdo Pezzoli, già primario di Pediatria all’Ospedale Civico, lavora oggi come libero professionista occupandosi soprattutto di pediatria dello sviluppo. Con lui abbiamo indagato il tema della relazione degli adolescenti con i social media e dei pericoli legati a queste nuove forme di comunicazione.

Dottor Pezzoli, esiste a suo avviso un problema nel rapporto tra i ragazzi e i social media?
«Sicuramente sì. Nel giro di pochissimi anni, la vita degli adolescenti - e anche dei ragazzi al limite dell’adolescenza, gli undicenni da un lato e i giovani adulti dall’altro - è stata drammaticamente cambiata dalla diffusione capillare dei mezzi elettronici. Tutti, in qualche modo, si sono trovati, volenti o nolenti, a dover fare i conti con nuovi “media” che sono, nello stesso tempo, strumenti e modalità di comunicazione inediti. Pensiamo allo smartphone, ad esempio: un oggetto che rimanda a un sistema comunicativo estremamente complesso. La comunicazione mediante lo smartphone sottostà a una serie di regole e di convenzioni, di limitazioni e di facilitazioni dettate da chi produce lo strumento e le app che lo fanno funzionare, e soltanto in parte dalle libere scelte degli utilizzatori».

Perché parla di un cambiamento «drammatico»?
«Perché non possiamo più fare a meno di questo mezzo di comunicazione, e chi scegliesse di non utilizzarlo, soprattutto tra i più giovani, sarebbe privato in qualche modo della possibilità di entrare in contatto con i propri coetanei».

Intende dire che non siamo più in grado di scegliere?
«Esattamente. Se da un lato c’è la diffusione universale, la capillarità di questi mezzi elettronici, dall’altro lato - cosa della quale purtroppo si parla, a mio avviso, molto meno - c’è la loro supremazia sulle persone. Siamo di fronte a un rapporto di quasi totale dipendenza».

Si può dire che lo strumento domina sul soggetto?
«In un certo senso direi di sì. Ma non solto: impone regole e modalità di funzionamento dei codici di comunicazione che sono estremamente limitanti, in quanto indotte e non scavalcabili, pena l’uscita dal sistema di comunicazione».

E questo ovviamente incide molto sui più giovani, i quali subito imparano a comunicare in un certo modo e difficilmente, dopo, sono disponibili o pronti ad abbandonare regole che pure in qualche modo li limitano.
«Sì. La consapevolezza dell’esistenza di regole e limiti è molto sottile, epidermica, si fanno poche domande su questo. Nessuno, per esempio, si chiede perché su TikTok i video possano durare fino a un massimo di 15 secondi e non 16 o 22. Si accetta, e basta».

I giovani, e non soltanto loro, spesso non si rendono conto del valore dei dati accumulati e ceduti gratuitamente alle Big Tech

Una sorta di limitazione cosciente della propria libertà, una «Servitù volontaria» per usare il titolo di uno dei saggi di filosofia politica più celebri del ’500.
«Un’espressione che riflette bene quanto accade a un altro livello. Questo legame di servitù, infatti, sposta in un’unica direzione anche i profitti. I giovani, e non soltanto loro, spesso non si rendono conto del valore dei dati accumulati e ceduti gratuitamente alle Big Tech».

Senza contare il fatto che una persona, entrando in un social da adolescente e poi continuando a utilizzarlo per anni, cede una massa enorme di informazioni, permettendo così all’algoritmo di tracciare profili estremamente precisi e di agire di conseguenza, con messaggi e richieste molto mirate.
«Si tratta di un processo estremamente preoccupante. L’aggregazione e l’elaborazione delle informazioni da parte delle Big Tech sottende a una grande perdita di libertà, difficile da caratterizzare e definire: la libertà del comunicare senza essere osservati. Faccio un esempio semplice: se una persona mostra una fotografia delle sue vacanze a un amico o a un’amica, compie un gesto molto privato, intimo; un gesto che, psicologicamente, ha un elevato contenuto di affettività e al quale sarebbe possibile dare connotazioni diverse. Se la stessa persona invia la stessa foto attraverso un social, rende questa immagine potenzialmente accessibile a tutta la “Community”. E accetta che l’immagine possa essere aggregata con altre migliaia. L’atto comunicativo cambia profondamente, anche dal punto di vista ontologico, è un modo di relazione completamente diverso».

In Svizzera, gli adolescenti navigano sui social da 4 a 5 ore al giorno. Quali sono i problemi più grandi sollevati da una frequentazione così intensiva?
«Ci sono due ordini di preoccupazioni: uno, quantitativo, facile da comprendere, legato alla durata, all’intensità dell’uso dei social. Il tempo trascorso da un giovane, un adolescente, a comunicare mediante i social è un tempo sottratto a qualcos’altro. Al sonno, allo studio, al gioco, e anche alla relazione diretta con i coetanei».

E la questione qualitativa?
«È molto più complessa e articolata. Comunicare significa mettersi in relazione, entrare in contatto con gli altri. E i social media hanno questo nome proprio perché sono facilitatori di rapporti sociali. Sappiamo che le relazioni possono intercorrere con figure “positive”, da emulare, o con figure “negative”, potenzialmente dominanti e in grado di soggiogare l’utente. Ora, piattaforme come Snapchat o Instagram viaggiano su parametri di velocità tali da chiedere, almeno in superficie, una grande agilità mentale. Sono ritagliate per il cervello degli adolescenti. Tutto è incalzante, e i contenuti vengono semplicemente assorbiti, non elaborati».

Fino a condizionare pesantemente chi guarda.
«Sì. Le immagini diventano schemi, condizionano associazioni. La velocità non dà tempo alla mente di ragionare. Ma questo è solo uno degli aspetti negativi. Sappiamo che gli algoritmi dei social sono in grado di veicolare immagini e contenuti sulla base delle preferenze degli utenti. Appagano quindi il desiderio degli adolescenti che sono alla ricerca di immagini di un certo tipo. Fanno vedere loro ciò che vogliono vedere. E ne condizionano lo sviluppo».

Lo sviluppo dell’adolescente avviene con una serie di processi di apprendimento estremamente delicati, fragili, attraverso i quali la mente di un bambino, mediante continui aggiustamenti, si trasforma prima nella mente di un pre-adolescente, poi in quella di un giovane adulto

In che modo?
«Lo sviluppo dell’adolescente avviene con una serie di processi di apprendimento estremamente delicati, fragili, attraverso i quali la mente di un bambino, mediante continui aggiustamenti, si trasforma prima nella mente di un pre-adolescente, poi in quella di un giovane adulto. I ragazzi acquisiscono nuove capacità soprattutto attraverso l’imitazione, la ripetizione e l’abitudine. Lasciare alle Big Tech il potere di decidere come questi processi di sviluppo debbano avvenire, credo significhi consegnare loro un potere immenso».

C’è una maniera per intervenire? E a chi spetta agire?
«Credo che spetti innanzitutto ai genitori, i quali mostrano di essere preoccupati per il troppo tempo trascorso dai figli sui social ma spesso ignorano i contenuti sui quali i ragazzi si soffermano. Nel mio lavoro, quando mi occupo di questi temi, cerco di spostare l’accento dalla parte quantitativa a quella qualitativa. Certo, se i social sottraggono ore di sonno è un problema, ma è ancora più importante evitare che gli adolescenti non entrino in contatto con immagini di violenza, pornografia o non si addentrino nel campo dei limiti, delle trasgressioni».