Oradea, un raro gioiello dimenticato

Sulle tracce dello Jugendstil nella città romena che fu ungherese fino al 1920
Tommy Cappellini
Tommy Cappellini
24.07.2013 19:05

Non ci va più nessuno a Oradea. Il viaggiatore che si lascia alle spalle Bu­dapest procedendo verso est - punto cardinale che è anche un richiamo dell'anima - preferisce fermarsi nei dintorni di Tokaj, a Tarcal, a Tolcsva, per prendere respiro dalla metropoli, leggere qualche pagina di Gyula Krúdy e contrattare il miglior aszú nelle pic­cole cantine non ancora rilevate dalle multinazionali francesi del vino o del lusso. Se poi gli torna la foga di rimet­tersi in automobile, nonostante la quiete che ispira la regione (ovunque case basse con giardini in fiore; ogni dieci pali del telefono, un nido di cico­gne; stazioni vuote e binari che si per­dono verso l'Ucraina, «verso Cerno­pol», direbbe Von Rezzori), la scelta cade su Ko?ice, novanta chilometri più a nord, venti oltre la frontiera con la Slovacchia. Quest'anno è la Capitale Europea della Cultura, insieme a Mar­siglia, il che ha significato fondi UE a pioggia (per ogni euro investito, una ricaduta di otto-dieci) e una felice esplosione della vita culturale e del turismo. Felice, e impegnativa e strepi­tante. Meglio scendere di nuovo a sud, verso la puszta di Hortobágy, ancora più silenziosa del Tokaj: è il «grande vuoto» ungherese con il vento che - per tutto l'anno meno un giorno, se­condo le rilevazioni scientifiche - ac­carezza la steppa e i canneti del lago del Tibisco. Da qui si potrebbe facil­mente sconfinare nel nord della Ro­mania e compiere un pellegrinaggio culturale davvero insolito a Oradea/ Nagyvárad/Grosswardein (in rumeno, ungherese, tedesco). Ma appunto: non ci va più nessuno, o quasi. «Oradea - scrive lo storico tedesco Karl Schlögel - è una città liberty allo stesso livello di Bruxelles e Barcellona, Monaco e Vienna, con l'unica diffe­renza che di essa si sa poco o nulla. In poche altre città europee lo Jugendstil è altrettanto presente e ben conserva­to. Interni che sono per noi testimo­nianza della ricchezza e volontà di forme di una società urbana che fati­chiamo a immaginare. Ma questa era un tempo l'Europa. Solo chi ha visitato una città fuori mano come Oradea può essersi fatto un'idea adeguata dello splendore e del declino dell'Europa».Si può iniziare dal Vulturul Negru, «L'aquila nera», complesso di alberghi, uffici, boutique e ristoranti che ricorda la galleria Vittorio Emanuele a Milano: costruito tra il 1907 e il 1909 su proget­to di Marcell Komor e Jakob Dezsö, si sviluppa a forma di Y da piazza Unirii, con una delle due facciate che dà sul fiume Crisul Repede («Cris veloce»). Come altri immobili, la «mall» del Vul­turul Negru ha attirato dieci anni orso­no, durante il timido lampo di svilup­po economico della Romania, l'inte­resse di banche e grandi gruppi. Il re­stauro, oggi a metà del guado, è discu­tibile. Il comunismo aveva «congelato» l'anima di Oradea e dello Jugendstil nell'Europa dell'est, in quanto antago­nista alla propria visione, tut­tavia pare che il capitalismo «late co­mer», accomodante parodia dei valori della borghesia mitteleuropea, sia al­trettanto cieco.Dopo L'Aquila Nera, si può imboccare via della Repubblica, perdendosi per piazze e vie adiacenti: è un museo a cielo aperto dello stile Secessione, seb­bene troppi edifici, in uno stato molto oltre il délabré, siano coperti da grandi teli sempre più sporchi, in lunga attesa di un risanamento che stenta a partire. I palazzi Moskowitz, Stern, Apollo, Ul­lmann, casa Deutsch, casa Darvas-La Roche, casa Poynar, casa Adorjan I e II sono sovente stati costruiti nel giro di soli due-tre anni, nell'epoca d'oro della città, il decennio che precede la Gran­de Guerra: insieme all'albergo Astoria, al Transilvania e al caffè Royal raccon­tano di un'epoca «silenziosa e discreta - parole di Schlögel - e di uno stile in cui ancora tutto ?si tiene? e il mondo non si è ancora divaricato in posizioni estreme. Uno stile delle sfumature in­termedie, della complessità, dell'ele­ganza, dell'attenzione per i dettagli e per le differenze». Sempre nel centro storico vi sono due sinagoghe, anch'esse, pare incredibile, con accen­ti Art nouveau. Con la cattedrale ba­rocca di San Ladislao e le altre cento chiese di diversi culti, completano il ritratto di una città, e di un paesaggio, plurietnico, intessuto di lingue, svin­colo di commerci, di scambi di ogni tipo: fu il Trattato del Trianon del 1920 a deprimere questo mondo, togliendo all'Ungheria due terzi del suo territo­rio (Oradea era ungherese quanto Ko?ice).Il viaggiatore che arriva a Oradea subi­sce dunque uno shock culturale: gli si presenta davanti agli occhi il ricordo di un'Europa diversa, realmente «simul­tanea», ben lontana da quella di oggi che della simultaneità ha fatto solo un feticcio, e sia detto nonostante il dina­mismo che si respira all'est. L'inces­sante traffico commerciale su gomma nella periferia cittadina, con TIR dall'Ucraina alla Slovenia e ritorno, e gli altoforni in funzione giorno e notte, un nuovo sindaco dalla politica «fat­tuale», per non dire dei centri acquati­ci e delle spa della regione per chi arri­va da Bucarest con qualche soldo in tasca, sono in qualche modo insuffi­cienti senza l'apporto della «vecchia» Oradea: «Il materiale dello Jugendstil - scrive Schlögel - segnala la voglia di stupire, e gli interni la circostanza che dietro tutto ciò c'è una persona: un padrone o una padrona di casa che non solo sono benestanti, ma che dal loro benessere deducono una sorta di responsabilità verso l'esterno. Lo Ju­gendstil, e ciò che ne resta, è la più energica smentita di un'epoca che ha smesso di preoccuparsi di tutto ciò».