Oradea, un raro gioiello dimenticato

Non ci va più nessuno a Oradea. Il viaggiatore che si lascia alle spalle Budapest procedendo verso est - punto cardinale che è anche un richiamo dell'anima - preferisce fermarsi nei dintorni di Tokaj, a Tarcal, a Tolcsva, per prendere respiro dalla metropoli, leggere qualche pagina di Gyula Krúdy e contrattare il miglior aszú nelle piccole cantine non ancora rilevate dalle multinazionali francesi del vino o del lusso. Se poi gli torna la foga di rimettersi in automobile, nonostante la quiete che ispira la regione (ovunque case basse con giardini in fiore; ogni dieci pali del telefono, un nido di cicogne; stazioni vuote e binari che si perdono verso l'Ucraina, «verso Cernopol», direbbe Von Rezzori), la scelta cade su Ko?ice, novanta chilometri più a nord, venti oltre la frontiera con la Slovacchia. Quest'anno è la Capitale Europea della Cultura, insieme a Marsiglia, il che ha significato fondi UE a pioggia (per ogni euro investito, una ricaduta di otto-dieci) e una felice esplosione della vita culturale e del turismo. Felice, e impegnativa e strepitante. Meglio scendere di nuovo a sud, verso la puszta di Hortobágy, ancora più silenziosa del Tokaj: è il «grande vuoto» ungherese con il vento che - per tutto l'anno meno un giorno, secondo le rilevazioni scientifiche - accarezza la steppa e i canneti del lago del Tibisco. Da qui si potrebbe facilmente sconfinare nel nord della Romania e compiere un pellegrinaggio culturale davvero insolito a Oradea/ Nagyvárad/Grosswardein (in rumeno, ungherese, tedesco). Ma appunto: non ci va più nessuno, o quasi. «Oradea - scrive lo storico tedesco Karl Schlögel - è una città liberty allo stesso livello di Bruxelles e Barcellona, Monaco e Vienna, con l'unica differenza che di essa si sa poco o nulla. In poche altre città europee lo Jugendstil è altrettanto presente e ben conservato. Interni che sono per noi testimonianza della ricchezza e volontà di forme di una società urbana che fatichiamo a immaginare. Ma questa era un tempo l'Europa. Solo chi ha visitato una città fuori mano come Oradea può essersi fatto un'idea adeguata dello splendore e del declino dell'Europa».Si può iniziare dal Vulturul Negru, «L'aquila nera», complesso di alberghi, uffici, boutique e ristoranti che ricorda la galleria Vittorio Emanuele a Milano: costruito tra il 1907 e il 1909 su progetto di Marcell Komor e Jakob Dezsö, si sviluppa a forma di Y da piazza Unirii, con una delle due facciate che dà sul fiume Crisul Repede («Cris veloce»). Come altri immobili, la «mall» del Vulturul Negru ha attirato dieci anni orsono, durante il timido lampo di sviluppo economico della Romania, l'interesse di banche e grandi gruppi. Il restauro, oggi a metà del guado, è discutibile. Il comunismo aveva «congelato» l'anima di Oradea e dello Jugendstil nell'Europa dell'est, in quanto antagonista alla propria visione, tuttavia pare che il capitalismo «late comer», accomodante parodia dei valori della borghesia mitteleuropea, sia altrettanto cieco.Dopo L'Aquila Nera, si può imboccare via della Repubblica, perdendosi per piazze e vie adiacenti: è un museo a cielo aperto dello stile Secessione, sebbene troppi edifici, in uno stato molto oltre il délabré, siano coperti da grandi teli sempre più sporchi, in lunga attesa di un risanamento che stenta a partire. I palazzi Moskowitz, Stern, Apollo, Ullmann, casa Deutsch, casa Darvas-La Roche, casa Poynar, casa Adorjan I e II sono sovente stati costruiti nel giro di soli due-tre anni, nell'epoca d'oro della città, il decennio che precede la Grande Guerra: insieme all'albergo Astoria, al Transilvania e al caffè Royal raccontano di un'epoca «silenziosa e discreta - parole di Schlögel - e di uno stile in cui ancora tutto ?si tiene? e il mondo non si è ancora divaricato in posizioni estreme. Uno stile delle sfumature intermedie, della complessità, dell'eleganza, dell'attenzione per i dettagli e per le differenze». Sempre nel centro storico vi sono due sinagoghe, anch'esse, pare incredibile, con accenti Art nouveau. Con la cattedrale barocca di San Ladislao e le altre cento chiese di diversi culti, completano il ritratto di una città, e di un paesaggio, plurietnico, intessuto di lingue, svincolo di commerci, di scambi di ogni tipo: fu il Trattato del Trianon del 1920 a deprimere questo mondo, togliendo all'Ungheria due terzi del suo territorio (Oradea era ungherese quanto Ko?ice).Il viaggiatore che arriva a Oradea subisce dunque uno shock culturale: gli si presenta davanti agli occhi il ricordo di un'Europa diversa, realmente «simultanea», ben lontana da quella di oggi che della simultaneità ha fatto solo un feticcio, e sia detto nonostante il dinamismo che si respira all'est. L'incessante traffico commerciale su gomma nella periferia cittadina, con TIR dall'Ucraina alla Slovenia e ritorno, e gli altoforni in funzione giorno e notte, un nuovo sindaco dalla politica «fattuale», per non dire dei centri acquatici e delle spa della regione per chi arriva da Bucarest con qualche soldo in tasca, sono in qualche modo insufficienti senza l'apporto della «vecchia» Oradea: «Il materiale dello Jugendstil - scrive Schlögel - segnala la voglia di stupire, e gli interni la circostanza che dietro tutto ciò c'è una persona: un padrone o una padrona di casa che non solo sono benestanti, ma che dal loro benessere deducono una sorta di responsabilità verso l'esterno. Lo Jugendstil, e ciò che ne resta, è la più energica smentita di un'epoca che ha smesso di preoccuparsi di tutto ciò».
