Teatro

Paolo Rossi: «Anch’io come Molière sono un ladro di testi»

Il celebre attore italiano ci parla del suo nuovo spettacolo, ispirato all’opera del grande drammaturgo francese, in scena al LAC sabato 19 gennaio. «Come tutti i teatranti pure lui rubava canovacci e copioni»
Adriana Rossi
18.01.2019 11:40

Da parecchie stagioni Paolo Rossi si dedica a rivisitare la produzione di Molière. Anche con la pièce che fa tappa al LAC di Lugano 19 gennaio - Il re anarchico e i fuorilegge di Versailles. Da Molière a George Best - che rappresenta il quinto capitolo di un percorso che – narrativamente – Rossi fa compiere al celebre drammaturgo e capocomico e alla sua compagnia, diretti alla reggia dove lo voleva Luigi XIV, suo mecenate e padrone.
Amato dal sovrano per le sue commedie e come organizzatore di eventi e allestimenti, Molière era detestato dai cortigiani, che capivano benissimo di essere obiettivo ricorrente della sua satira. Era quindi un viaggio verso la «prigionia», l’imbavagliamento – come bene spiega Valter Malosti ne Il misantropo, un altro degli spettacoli che in questa stagione si appoggiano alla modernità del francese.

Rossi però fa un’operazione diversa da quella corrente: prende solo marginalmente le parole e le opere di Molière come spunto della sua opera, preferendo divagare e riflettere sul mestiere dell’attore. Magari aggiungendo una buona dose di maieutica verso quei giovani attori e i musici che lo accompagnano, un po’ maltrattati, un po’ spronati a fare.
Siamo dunque già al quinto capitolo di questa saga dedicata a Molière...
«È un po’ come Il trono di spade: la storia prosegue e si completa. C’è la stessa compagnia, i musicisti e un testo nuovo all’85%. C’è anche un breve riassunto iniziale che spiega il sogno, l’avvicinarsi a Versailles».
Perché ancora Molière quasi quattro secoli dopo?
«Varie ragioni. Perché questo spettacolo è anche un po’ laboratorio. Parlo del “metodo” per cui l’attore si mette in gioco, del suo mestiere, i virtuosismi tra persona e personaggio. Che è poi lo stesso usato anche da Molière. Perché come me (e come tutti in teatro), Molière rubava: canovacci, copioni, il “teatro all’improvviso” della commedia dell’arte, con cui si era formato e aveva praticato da giovane. E ancora per il suo rapporto con il potere e la satira: molto moderno, poiché il suo pubblico era anche il suo bersaglio».

L’improvvisazione è un’arte seria, una disciplina quasi militare. Significa cambiare il testo ma in modo meditato, preparato

È vero o è un’impressione sbagliata che in ogni replica di Il re anarchico ci sia quindi molta improvvisazione, molte cose inventate al momento?
«Sembra. Ma non è vero. L’improvvisazione è un’arte seria, una disciplina quasi militare. Che non è solo cavalcare il piccolo incidente, lo spunto dal pubblico, ma è pianificazione. Significa cambiare il testo ma in modo meditato, preparato. Per esempio: io ogni volta che lo faccio (quasi ogni sera) prima c’è un’idea, poi una scaletta, poi il tutto viene provato. Il risultato finale è importante, ma ancora di più il processo artistico. Insomma, finisce che sera dopo sera, lo spettacolo non ha più molto a che vedere con quello del debutto. Mi diverte quando leggo delle recensioni o gli stessi programmi di sala che citano scene e battute che non ci sono più. Io insegno questa improvvisazione qui, che non è estemporanea. Come nel jazz: c’è una traccia, una partitura generale, su cui ti muovi liberamente, ma sai esattamente (tutti sanno) quando è il momento giusto per rientrare dall’assolo».
Resta il fatto che il pubblico vive la cosa come se fosse un discorso creato in quel momento, un rivolgersi direttamente a lui.
«Questo perché la quarta parete viene disintegrata dall’attore. Ma, prima di dirle sul palco quelle cose, io le provo per ore. Anzi: più che di prove, parlerei di allenamenti. Mi ricordo quando da bambino si fermavano nel mio paese dei teatranti: appena potevo andavo a vedere le prove. Poi alla sera tornavo a vedere lo spettacolo. Rimanevo invariabilmente deluso: la confezione finale era più rigida, meno viva. Metteva soggezione».

Come fa per mantenere inalterata questa freschezza?
«Sono tornato a fare stand up. Mi rigenero a contatto con la realtà, con il pubblico dei cabaret magari maleducato ma tanto generoso. Il teatro anche come spazio mette soggezione. Per sua natura il cabaret invece rompe quella famosa quarta parete. Il comico è più coinvolgente».
Tornando allo spettacolo: chi è il re anarchico?
«Forse sono proprio io che recito Molière. Oppure il Re Sole che sa di avere invitato a corte un commediografo ribelle e critico. Oppure lo stesso Molière, re dei drammaturghi, però detestato dal pubblico che irride».

George Best è stato, nel calcio, un grande dell’improvvisazione.

Cita George Best, il calciatore tutto genio e sregolatezza. Che c’entra con Molière?
«È una specie di patrono dell’improvvisazione. Pasolini diceva che il calcio ha una struttura ferrea ma cambia sempre. Best in questo era un campione. Quanto al Best genio sregolato, non lo beatificherei affatto. È pieno di geni maledetti che ci hanno lasciati anzitempo: mi fanno incazzare proprio perché per questo non hanno potuto darci tutto quello che avrebbero potuto. Oggi la lucidità è la massima forma di trasgressione. E lo dice uno che in passato...».
Un’ultima curiosità: quando arriverete a Versailles?

«Ci sarà ancora una sesta e ultima stagione. Nelle nostre intenzioni arriveremo e sarà una sorta di occupazione. Ma dati i tempi che corrono (e non è una battuta) non è detto che la faccia in teatro, ma su Sky o su Netflix. Anche il teatro può diventare replicabile, in streaming. Sta arrivando la ferrovia: non puoi continuare a usare i cavalli».