Paolo Rossi: «È un momento difficile ma creativamente importante»

Nonostante non sia più di primo pelo (a giugno ha infatti tagliato il traguardo delle 67 primavere) Paolo Rossi continua ad essere l’enfant terrible del teatro italiano. Una reputazione costruita in oltre trent’anni di quello che lui definisce «teatro d’emergenza», istrionico, anticonformista, ribelle, provocatorio che unisce modernità e tradizione, elementi colti e cabaret. Elementi che si ritrovano anche in Pane o libertà - Su la testa, che martedì 27 e mercoledì 28 metterà in scena al LAC di Lugano. Ne parliamo con il diretto interessato.
Anzitutto: da uomo di teatro, come sta vivendo questo periodo decisamente confuso?
«È un momento creativamente molto importante e interessante, anche per le visioni dei possibili orizzonti futuri del teatro. Specie per chi ha praticato come me il teatro d’emergenza e che quindi è riuscito, nonostante tutto, adattandosi, ad andare avanti. E difatti da quanto è finito il lockdown non abbiamo mai smesso di lavorare: abbiamo recitato nei cortili, nelle strade, nelle piazze, nei teatrini ridotti e nei teatri più grossi, ovviamente contingentati. E lo abbiamo fatto sempre rispettando le norme sanitarie ma anche dribblandole, adattandoci. Ed è quello che credo tutto il mondo del teatro debba fare perché avremo a che fare con questa emergenza per parecchio tempo».
Dunque, a dispetto di quanto sta accadendo, non è così preoccupato come molti altri suoi colleghi.
«No perché la difficoltà è da sempre il nostro pane quotidiano. È anni che noi siamo allenati a rompere la quarta parere, a trasformare il teatro in un’arena, in una sfida, in un parlamento buffo. Ecco perché credo che al di là del periodo di crisi, profonda, economica, del continuo navigare a vista, sia un periodo creativamente molto importante. Però non bisogna stare troppo a lamentarsi. Noi non lo abbiamo fatto: abbiamo continuato a fare il nostro mestiere, nonostante le autorità, gli enti preposti non ci considerassero minimamente. Anzi, finalmente, in questo periodo ci hanno detto chiaramente che non gli interessiamo. Leggendo infatti tutte le notizie, i decreti, le ordinanze governative, si scopre che per loro vengono prima le sale bingo dei teatri. Dunque adesso siamo più liberi: noi non chiediamo niente a loro ma anche loro non devono più chiedere a noi. Pari e patta».

Al di là della sua esperienza e visione personale, non ritiene comunque pericolosa, in questo particolare momento, la poca attenzione da parte delle autorità nei confronti dell’arte e della cultura?
«La poca attenzione nei confronti della cultura non è solo di questo periodo, è degli ultimi trent’anni durante i quali è stata stuprata, violentata. Adesso però mentre tutti mettono le mascherine sono cadute anche molte maschere. E dunque noi ci ritroviamo a doverci arrangiare, visto che i teatri sono più ospedalizzati degli ospedali, tirando fuori il coraggio, l’azzardo, ma anche molta lucidità nell’affrontare l’attuale situazione. Cosa che noi abbiamo fatto, visto che in questi quattro mesi abbiamo montato ben tre spettacoli: abbiamo sì firmato le petizioni, abbiamo aderito alle proteste, ma nel contempo siamo andati avanti, consci del fatto che la nostra è una missione: senza la cultura, senza che la gente sappia condividere delle storie, non si reggono le pandemie. Quindi il nostro ruolo è molto più importante. E dobbiamo farlo anche senza chiedere aiuto alle istituzioni. Se poi ogni tanto qualcuno decide di aiutarci ben venga decide di aiutarci (come è accaduto per noi con il Teatro Stabile di Bolzano) ben venga, ma dobbiamo essere in grado di proseguire autonomamente, come noi stiamo facendo, producendo e mettendo in scena spettacoli, come Pane o libertà, in grado di adattarsi ad ogni situazione».
A proposito di questo nuovo spettacolo: nelle note si dice che al suo interno lei parlerà dei suoi maestri: Jannacci, Gaber, de Andrè, Dario Fo...
«Non bisogna fidarsi mai delle schede quando hanno a che fare con me (ride - ndr). Sì, tutti questi personaggi sono presenti, sono una sorta di fil rouge, visto che si parla di conta-cantastorie. E chi fa questo mestiere oggi è chiaramente in debito nei confronti di queste figure, così come loro erano debitori nei confronti di altri personaggi. Che erano tutti dei grandi ladri. Infatti nessuno di loro copiava ma rubava: il teatro, da Shakespeare in poi, è infatti tutto un rubare, un reinventare, un adattare in modo da essere sempre contemporaneo. Tornando alla domanda iniziale, potemmo dunque dire che, nello spettacolo, i personaggi citati “aleggiano”...»


A tal proposito: visto che in un suo celebre spettacolo tv, Su la testa – tra l’altro citato anche nella locandina di questa nuova produzione – ha lanciato un gran numero di talenti (Aldo Giovanni e Giacomo, Antonio Albanese, Bebo Storti, tanto per fare qualche nome...) pure lei può essere considerato uno a cui gli altri hanno «rubato» o un pigmalione...
«Non sono ma stato un pigmalione, avevo semplicemente una dote che molti gli agenti non hanno: loro individuano gli emergenti io i diamanti grezzi. E neppure un ispiratore, ma piuttosto una... ditta di traslochi. Nel senso che mente tutti vanno verso il teatro del futuro io mi preoccupo che non ci si dimentichi di portare appresso qualcosa da quello vecchio: che può essere una chitarra acustica, un quadro, un libro... cose cariche di affetto e di tradizione. E questo perché per essere un vero innovatore è necessario conoscere la tradizione, altrimenti si finisce per essere solo qualcuno che va avanti zigzagando, a tentativi».
Ha nominato la chitarra e di conseguenza la musica che ha sempre avuto una componente essenziale nei suoi spettacoli e nel suo essere artista...
«Vero. Probabilmente perché il mio primo lavoro professionistico è stato l’Histoire du soldat di Stravinskij e da ragazzino suonavo in una band. Ma anche perché, studiando i grandi autori greci, ho scoperto che una delle cose fondamentali delle loro opere era la presenza della musica. Così come è fondamentale anche nella nostra vita quotidiana, e allora non vedo perché nel teatro non debba entrarci. Dopo di che mi stupisco che nelle scuole di recitazione insegnino poco la musica, che è un codice fondamentale».


Torniamo al suo spettacolo: Pane o libertà, che sembra voler trattare di scelte importanti.
«Noi siamo un gruppo di conta-cantastorie che va bene per matrimoni, battesimi, divorzi, funerali, serenate di insulti, riunioni di condominio isteriche, pronto a raccontare delle storie. E Pane o libertà (una frase rubata a La peste di Camus) è una oggi una scelta che ci viene imposta. Ma noi non vogliamo scegliere: vogliamo sia pane che libertà, salute e libertà, lavoro e libertà: vogliamo tutto».
Ma la gente sa veramente cos’è la libertà?
Questo lo racconto nello spettacolo, con delle storielle quasi vere, rubate o rielaborate, nelle quali cerco di far capire che la gente non sempre sa davvero il significato di questa splendida parola».