Il personaggio

Per amore del jazz

A colloquio con Nicolas Gilliet su un ruolo nel mondo musicale, ammirato, invidiato ma sempre più complesso: il produttore
Nicolas Gilliet, produttore musicale. © CdT / Gabriele Putzu
Sandro Neri
24.02.2023 06:00

Nell’ambiente artistico quella del «produttore» è una figura quasi mitizzata: una sorta di burattinaio in grado di scoprire talenti, pilotare carriere, decidere il destino degli artisti e dare una fisionomia ai grandi eventi. Nella realtà le dei fatti, le cose vanno invece, in tutt’altro modo. Soprattutto dopo che la pandemia di inizio Ventennio ha scombussolato, sconvolto e ridisegnato completamente l’assetto del panorama artistico obbligando tutti i suoi attori, produttori inclusi, a rivedere quasi completamente il loro ruolo. Ne sa qualcosa il giubiaschese Nicolas Gilliet uno dei pochi operatori professionali ticinesi in ambito musicale, con alle spalle una ultraventennale carriera da – appunto – produttore sia di eventi (da JazzAscona che ha guidato per molti anni al Jazz Cat Club, giunto alla XV stagione di attività a molte altre iniziative) sia a livello discografico sia nell’organizzazione di tournée per vari artisti.
«Il periodo pandemico e postpandemico ha rivoluzionato tutto il sistema lavorativo», spiega. «E dunque il produttore oggi si ritrova ad essere un tuttofare nello sviluppo di un concetto musicale o del percorso artistico di un musicista. Oggi infatti bisogna lavorare e agire 360 gradi e dunque essere attivi nel campo della promozione, della creazione e la gestione di situazioni che vanno dai concerti alle interviste, dagli eventi promozionali alla registrazione di dischi… Oggi un produttore è colui che si occupa di tutto ciò che serve ad un musicista per crescere, di tutto quello che un musicista non fa e che, in fondo, non dovrebbe fare. Dunque non esistono più – fatta ovviamente eccezione per le grandi star – persone che si occupano solo di un determinato aspetto dell’attività di un artista:oggi il produttore è chiamato a fare di tutto: dal consigliere artistico al manager a quello che si occupa pure degli aspetti prettamente tecnici. E questo soprattutto a causa dei mutati aspetti economici del settore, ossia costi che sono lievitati e cachet che, invece, si sono livellati verso il basso e che hanno costretto a rivedere tutto».

Quanto all’interno di un simile scenario è importante ancora lavorare sulla produzione discografica, specie in un periodo in cui la vendita dei dischi è ai minimi storici e l’imperante streaming non garantisce che miseri introiti?
«Personalmente non ho mai lavorato con la musica “liquida” o digitale: ho sempre prediletto e continuo a privilegiare i supporti “tradizionali” come il CD o il recentemente rivalutato disco in vinile. Però pur nel contesto dipinto, che è davvero molto difficile, rimane importantissimo operare in tal senso. Se non per guadagnare (ormai con i dischi non si guadagna più) per lasciare delle tracce, per fare in modo che di un prodotto di un’idea musicale rimanga qualcosa nel tempo. In questo campo la figura del produttore continua ad essere importante. Perché pensando al lavoro di un artista in modo ampio, ovvero come ad un progetto complesso fatto di registrazione di dischi, di promozione e di concerti, è importante poter avere qualcuno che abbia una visione ampia del tutto, che sappia intervenire in ogni tassello del progetto. Cosa che un musicista da solo difficilmente è in grado di fare».

Quelle che descrive sono mansioni solamente organizzative oppure incidono pure sul fronte artistico?
«In entrambi i casi. Personalmente non sono uno che ama intervenire sul fronte creativo degli artisti con cui lavoro e neppure troppo su come gli stessi debbono presentarsi al pubblico: rispetto infatti molto le loro scelte personali. Ci sono però dei casi in cui è necessario intervenire, mettere die paletti: quando c’è qualcosa che palesemente stona all’interno di ciò che si è stabilito di fare o quando ci sono degli elementi che vanno rispettati. Sono degli interventi che però cerco sempre di fare senza impormi a tutti i costi e sempre cercando di evitare che l’artista si senta fuori luogo o sovrastato».

Lei da sempre lavora in un settore specifico, la musica jazz. Ha mai pensato, forte anche della sua esperienza, di operare anche in altri settori?
«No, perché lo fanno tutti e, a mio parere, sbagliando. Ritengo che oggi più che mai sia necessario profilarsi e specializzarsi in un determinato settore all’interno del quale avere una certa credibilità. Io personalmente amo il jazz e credo molto in esso in quanto si tratta di un genere che ha alle spalle un secolo di storia durante il quale ha saputo esprimere così tante cose e una capacità di adattamento e crescita da lasciar ben sperare per il futuro. Se un tempo lavoravo seguendo le tendenze del mercato, cercando di assecondarle, adesso ritengo sia giusto specializzarsi e, soprattutto, fare quello in cui credo, con artisti di cui intravedo del potenziale e con i quali c’è sintonia, dei quali ti puoi fidare e avere un rapporto sinergico che va oltre quello del semplice promotore della loro attività».

Oltre che produrre artisti da molti anni, lei è attivo anche nell’organizzazione di rassegne musicali e festival. In quest’ambito cosa è cambiato dopo la pandemia?
«Anche qui tutto è diventato nettamente più difficile rispetto al passato, soprattutto perché è cambiato l’approccio del pubblico agli eventi. Dopo la pandemia (ma è una tendenza che ha iniziato a manifestarsi già prima e che lo stop pandemico ha solo evidenziato) si è verificata una spaccatura tra i grandissimi eventi in cui si va perché ci sono dei nomi altisonanti e i piccoli eventi ai quali si assiste in maniera quasi passiva, quasi si trattasse di un sottofondo. Non c’è più l’interesse per quegli eventi che stanno nel mezzo, per i festival magari senza nomi di richiamo ma con artisti di qualità e costruiti seguendo un ben preciso percorso artistico e culturale. E infatti buona parte di questi eventi sono entrati in crisi, a livello di pubblico e, di conseguenza, anche finanziaria. E la cosa mi dispiace, tanto che ho provato in alcuni casi a provare ad andare in loro soccorso. Il risultato è stato che mi sono ritrovato con ben 5 festival che mi hanno chiesto di subentrare nell’organizzazione».

Una soddisfazione e un attestato di stima...
«Certamente ma nella maggior parte dei casi un compito quasi impossibile. Perché per gestire un festival è necessario essere sempre presente sul posto in quanto ciò che ti viene richiesto non è solo un lavoro artistico ma anche organizzativo. E se nell’area in cui vivi la cosa è fattibile, se la richiesta arriva dalla Francia o da altri Paesi o aree linguistiche tutto diventa più complesso. Anche perché, oggi, ad un produttore si chiede di fare tante cose, spesso addirittura troppe, senza capire che talvolta si tratta di mansioni difficilmente conciliabili tra loro».

Come vede, a questo punto, il futuro?
«Duro, ci sarà da remare parecchio, tanto che qualche volta mi è venuta anche la tentazione di mollare. Però alla fine è la passione che ti fa andare avanti e il grande amore nei confronti della musica, del jazz. Alla quale mi sento di dare ancora una chance in quanto la ritengo talmente fresca, dinamica, energica da superare alla lunga tutte le difficoltà e dunque in grado di rimanere con noi e farci divertire a lungo».