La riflessione

Perché una lingua più povera non ci aiuta a capire la realtà

Da anni assistiamo indifferenti alla drammatica erosione di quel minimo bagaglio di parole di cui tutti dovremmo conoscere il significato per orientarci nel mondo e comprendere i testi base del nostro patrimonio culturale
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Roberto Cotroneo
29.09.2021 20:05

Lo scorso 25 settembre è stata la giornata mondiale dei sogni. Cosa significhi esattamente non lo sa nessuno. Forse non significa proprio nulla, o forse quel giorno sono tutti autorizzati a rivelare un sogno. Peraltro non si comprende se era la giornata mondiale dei sogni notturni o dei sogni a occhi aperti, che sono ben altra cosa. Ma questo vizio delle giornate mondiali meriterebbe un calendario apposito. Dove accanto al santo, c’è anche indicata la giornata mondiale celebrata. Sono cose che non servono a niente, a parte alcuni temi di grande importanza. Ma siamo ormai abituati a mettere etichette ovunque.

Serve invece, eccome, la Settimana della lingua italiana nel mondo. Esiste dal 2001, si tiene a ottobre, una delle quattro set-timane di ottobre. Quest’anno cade dal 18 al 24 di ottobre. È una cosa serissima, e diventa sempre più cruciale. Perché la nostra lingua è davvero qualcosa che consegnamo alle nuove generazioni. Tullio De Mauro è stato un intellettuale e un linguista importante. Autore di un dizionario UTET, studioso dei mutamenti sociali del linguaggio. È scomparso nel 2017, e poco prima di morire aveva sottolineato e reso evidente il problema: quante parole usiamo quando scriviamo e parliamo? E – soprattutto – quante parole vengono usate quando ci parlano, e quando noi stessi parliamo ai bambini? Mai come quest’anno si è celebrata la lingua italiana: complice il «Dantedì», è stato un continuo discorrere di lingua, di poesia, della bellezza dei versi della Commedia. Giustissimo. Peccato che Dante sia un’altra cosa. Mentre noi abbiamo una serie di problemi difficilmente risolvibili. Il primo è quello di un uso della lingua che man mano che il tempo passa si impoverisce, e non basta rileggere la Divina Commedia per arricchirla. Si dovrebbero leggere gli scrittori più importanti dell’Ottocento e del Novecento. Ma se si entra in una libreria è facile accorgersi che buona parte dei libri che si leggono sono traduzioni. E dunque sono testi scritti, di fatto, da persone che non lavorano sul patrimonio linguistico italiano, ma traghettano da una lingua all’altra sempre le stesse parole.

Il desueto dappertutto

La lingua è anche storia. Parole che si usavano, e si possono riusare, parole che vengono dal passato, e non è detto debbano considerarsi desuete. Ma il desueto è dappertutto, basta che abbia più di cinque o sei anni: negli oggetti che cambiamo, nelle tecnologie che si aggior-nano, nelle forme del design che si fanno altro. Continuiamo a buttare roba senza ripararla perché arriva sempre qualcosa di nuovo. Pensiamo che anche la lingua debba aggiornarsi, e un po’ per marketing, un po’ per esigenze editoriali, i vecchi dizionari ormai sembrano più dei periodici. Ogni anno c’è l’aggiornamento. Aggiornamento di quali parole? Di solito sono termini stranieri o gergali entrati nell’uso corrente. Ma, per tornare a De Mauro, ognuno di noi, nei fatti conosce circa 7000 parole, a fronte di dizionari che ne contengono in media tra i 110 e i 145 mila lemmi. Cosa ne facciamo? Tenendo anche conto che conoscere 7000 parole e un conto, utilizzarle tutte e 7000 mila è un altro. L’OCSE afferma in uno studio del 2019 che uno studente su quattro, in media, è privo di una competenza minima di comprensione del testo. E non si tratta soltanto di usare le parole, ma anche di capirle. Il numero da 7000, tra comprensione e uso, scende notevolmente. Don Milani scriveva in Lettera a una professoressa nel 1967: «L’operaio conosce cento parole, il padrone mille, per questo è lui il padrone». È ancora così. In parte. Ma imparare a parlare, usare una lingua significa innanzi tutto dare alle future generazioni, a quella «next generation» di cui si parla di continuo, un modo per non soccombere. E forse dopo giornate mondiali inutili e bizzarre scegliere una settimana in cui si fa il punto sulla lingua italiana è la risposta giusta. Ancora più efficace del Dantedì, che piace a tutti, ma che non risolve il problema delle parole, troppo poche, che ormai si usano, e che tolgono nitidezza al mondo e alle nostre conoscenze. Come fossimo tutti dei miopi linguistici. E lo sanno molto bene gli insegnanti, che seguono studenti abituati a una lingua povera, e ormai incapaci di comprendere autori a noi an-cora vicini nel tempo. E non dico Alessandro Manzoni, ma anche Italo Svevo o i primi romanzi e racconti di Alberto Moravia o Giorgio Bassani. Ben venga una seria riflessione, perché anche questo è un investimento per le prossime generazioni. E tra i più importanti.