Puccini, semplici complessità e insidie dei luoghi comuni

Nessuna epoca ha dovuto affrontare tutta una serie di luoghi comuni come accade con la nostra. Anche quando le società erano arcaiche e semplici, anche quando si trattava di sotterrare o dissotterrare l’ascia di guerra c’era la Sibilla, c’erano le foglie degli oracoli, c’era la magia a scompigliare le carte. È opinione corrente che l’Ottocento sia stato il secolo del progresso, del Positivismo. Nell’Ottocento si sviluppa l’industria con la macchina a vapore, i viaggi attraverso le nuove ferrovie. La filosofia diventa concreta, il romanzo si impone e racconta il suo tempo. La scienza progredisce, e si guariscono le malattie con nuovi composti chimici che non sono più dei pericolosi veleni. Ma l’Ottocento è anche altro: mai come in quel secolo hanno prosperato maghi, medium, spiritisti e tutto l’armamentario esoterico che sarebbe arrivato quasi intatto fino almeno agli anni Trenta del Novecento. Razionalità e irrazionalità, insomma. Complessità e innovazione da un lato, dubbio e tenebre dall’altro. Non si trattava di vincere o di perdere, si trattava di muoversi tra le pieghe del vincere, e nelle insidie della sconfitta.
La magia di Turandot
Tra la primavera e l’estate del 1924 Giacomo Puccini è assalito dai dubbi. Turandot è un’opera complessa, la sua prima opera magica, una sorta di favola, ma una favola crudele, piena di rimandi, di fantasmi, di oscuri presagi. Amore e crudeltà nella Turandot vanno assieme. Anzi, l’amore è fortemente lacerato dall’incapacità di amare che ha Turandot. È un’opera di ambientazione cinese, ma in realtà è una sorta di tragedia greca. Si avvicina a Euripide, è sfuggente. Vulgata vuole che Puccini non riuscì a finirla proprio perché il 24 novembre di quell’anno morì di cancro alla gola. Ma in realtà altri biografi sostengono che il lieto finale, l’amore trionfante, la vittoria contro il fato, il destino, le avversità non si addicevano allo stato d’animo di Puccini, e neppure alla sua idea di quell’opera: così complessa, così affascinante. Turandot restò incompiuta, venne terminata da un compositore incaricato da Arturo Toscanini, Franco Alfano. Ma l’opera vera finisce con Puccini, e di fatto non finisce. Non sappiamo se Calaf, il protagonista che vuole amare la principessa sanguinaria Turandot vincerà, non sappiamo neppure quanto il suo mistero sia chiuso in lui. Ma sappiamo che genere di mistero sia. Sappiamo che il pubblico che amerà quest’opera complessa, piena di rimandi, orientaleggiante e melodica al tempo stesso, nella più squisita tradizione pucciniana, non era solo un pubblico di colti melomani, erano i loggiati popolari, erano le persone comuni che non si nutrivano soltanto di romanze apparentemente orecchiabili, ma di sfumature, di attenzione, di opinioni. Gente dalle scarpe grosse e dall’orecchio fino, per capirci, che sapeva a malapena leggere e scrivere.
Quasi un ossimoro
Ora, mi si perdoni il paradosso, non c’è niente di meno complesso della complessità. Nel senso che la complessità non è qualcosa di difficile da capire, ma è semplicemente un modo più ricco, più attento e più rispettoso per guardare il mondo, e persino per goderlo. E negli ultimi mesi siamo piacevolmente assillati tutti da Nessun dorma, complice la situazione mondiale che conosciamo, ma anche una serie di eventi che verranno: ad esempio la messa in onda del documentario del 2019 di Ron Howard su Luciano Pavarotti che verrà trasmesso proprio domani dalla Rai. E proprio trent’anni fa proprio Pavarotti ha inciso il Nessun dorma più famoso di tutti: quello che si utilizza per le vittorie nello sport, nelle vittorie della vita, nelle vittorie contro il virus, e persino da aspiranti vittoriosi in future campagne elettorali.
L’equivoco «Vincerò»
Eppure Nessun dorma, con quel «Vincerò» finale non è mai stato pensato come qualcosa di trionfante e semplificatorio. Calaf canta con i brividi addosso. Sa bene che quel «vincerò» è quasi un esorcismo, rappresenta la complessità della vita, il destino che non si può piegare. Musicalmente è fitto di sfumature, e non è il sostituto di un inno nazionale con la parola giusta per le retoriche più diffuse. È un preludio a un pericolo. Puccini lo scrive tormentato dal dolore, consapevole che – per quanto la speranza sia l’ultima a morire – gli rimaneva da vivere ancora poco. Puccini non vincerà la sua battaglia, perché non era una partita. Non vincerà Calaf, che il compositore abbandona a se stesso, senza dargli il finale. Eppure la forza di quella musica è proprio nella sua intermittenza, in un dubbio potente. Al di là delle parole. Non serve per un gol in Champion League. Non serve neppure per darci forza oggi. Non vale tutta questa semplificazione. Vale nella sua ricchezza profonda. Nella capacità di suscitarci sentimenti altalenanti e contraddittori, in un mondo che vede le incertezze come qualcosa di sbagliato. In un mondo reso facile dal mercato globale, che non sa più ritrovarsi nella complessità.