Quando a Roma il potere cominciò a colorarsi di rosa

In un volume dello storico Federico Santangelo, Roma repubblicana, di recente uscita presso l’editore Carocci, sono tracciati i profili di quaranta personaggi che contarono nei cinque secoli della repubblica romana. Fra i primi trenta, solo due donne: Lucrezia, che violentata dal figlio di Tarquinio il Superbo si uccise provocando così la fine della monarchia dei Sette Re; e Cornelia madre dei Gracchi, che richiesta da un’altra matrona di mostrarle la collezione dei propri gioielli le indicò i suoi dodici figli, di cui due diventeranno celeberrimi. Per un certo periodo, nel III secolo avanti Cristo una legge vietò loro anche l’ostentazione del lusso, vesti e gioie; usanza che il vecchio Catone avrebbe voluto rendere permanente, restaurando alla lettera il detto che compito e dovere delle donne era generare figli e filare la lana; cioè garantire la continuità della famiglia e fornire di cittadini lo Stato, attendere ai lavori domestici e lasciare il resto agli uomini.
Ma verso la fine della repubblica lo scenario si apre e quasi all’improvviso compaiono anch’esse abbondantemente alla ribalta in posizioni e in avvenimenti centrali nel passaggio all’impero, anche se non ufficialmente e senza alcun ruolo istituzionale. Ed eccole dunque protagoniste come tali di un altro studio, di Francesca Rohr Vio, docente di Storia romana all’Università di Venezia: Le custodi del potere. Donne e politica alla fine della repubblica romana, editrice Salerno.
Fondamentali furono i vincoli matrimoniali con i protagonisti maschili di quei grandi avvenimenti. Giulio Cesare sposò un’altra Cornelia, figlia del capo del partito popolare, che gli assicurava le simpatie della plebe nella sua lotta contro gli aristocratici e i conservatori. Sul fronte opposto Pompeo si legò a Silla ripudiando la prima moglie e sposandone in seconde nozze la figliastra Cornelia. (Assai più prosaico il ripudio di Terenzia da parte di Cicerone dopo trent’anni di matrimonio per sposare Publilia non solo e non tanto perché molto avvenente, quanto perché dotata di un ricco patrimonio).
Al culmine di questi intrecci si pone il matrimonio nel 40 avanti Cristo di Ottavia, sorella del triunviro Ottaviano nipote di Cesare e futuro imperatore, con Marco Antonio, l’altro tribuno. E anche Ottaviano sposerà poi, per assicurarsi il sostegno del partito conservatore, Livia figlia e moglie di alti esponenti della nobiltà, che con la sua forte personalità rimarrà per cinquant’anni alla ribalta e nel retroscena del potere, mettendo persino in ombra se non a rischio quello dei loro uomini. Augusto, geloso e insospettito di Livia, cercò di non incontrarla troppo spesso per timore che si dicesse che lei gli dettava i suoi comportamenti; e le negò qualsiasi titolo ordinario e onori straordinari; anzi l’avvertì frequentemente di non impicciarsi degli affari politici più importanti “che non appartengono alle donne”.
Il futuro imperatore Caligola, suo nipote, definì Livia “Ulisse in gonnella”, indicando così che era fin troppo abile e astuta. Ma Claudio, successo a Caligola e anch’egli suo nipote, le decretò invece grandi onori, anzi “onori divini” come dice lo storico Svetonio; per cui durante le processioni le era dedicato un carro trainato da elefanti. Livia fu anche divinizzata ed ebbe statue in varie parti dell’impero.
D’altra parte alcune di queste matrone furono dotate anche di un’adeguata cultura, prima a loro negata e furono apprezzate per questo. Apprendiamo da Sallustio che ai tempi della congiura di Catilina un’aristocratica, Sempronia, oltre ad essere dotta di letteratura greca e latina era abile nelle danze non meno di quanto fosse libera e disinibita nei suoi comportamenti. Sappiamo che Cornelia ultima moglie di Pompeo era attraente proprio per la grazia proveniente dalla sua educazione in filosofia e geometria e per la sua bravura di musicista. Anche la moglie di Plinio il Giovane riusciva a mettere in musica e a suonare le poesie scritte dal marito. Possediamo anche un piccolo canzoniere in cui una poetessa di nome Sulpicia contemporanea di Tibullo e Ovidio cantò con franchezza e dolcezza un suo amore: “Mi è giunto Amore, e mi vergognerei | di nasconderlo più che di rivelarlo a chiunque. | Venere ha risposto alle mie preghiere,| me lo ha portato e messo fra le mie braccia,... | e così vorrei che rimanessimo incatenati l’uno all’altra | senza che mai si sciolga il nodo... | e che la mia gioia giunga a chi ne è privo”.
Altre donne si davano invece arie di intellettuali e radunavano a casa loro salotti letterari proprio insopportabili. Il satirico Giovenale le ritrae mentre si siedono a tavola e immediatamente cominciano a introdurre insieme agli antipasti discorsi su Virgilio e su Omero, facendo un tale frastuono da far pensare che in cucina siano andate all’aria e cadute, ahimè, sul pavimento, tutte le pentole e le stoviglie.
Ma anche a livelli più ampi e più bassi le donne fecero sentire la loro voce scendendo più volte in piazza, per le strade, nei tribunali, esattamente come oggi. Già durante le dure guerre contro i Cartaginesi e nelle circostanze drammatiche delle vittorie di Annibale “si udirono pianti di donne dalle abitazioni private – racconta Tito Livio, – ma esse uscirono anche nelle vie e correvano da un tempio all’altro con le chiome sciolte, protendendo le palme al cielo”. E quando Annibale offrì la consegna dei soldati romani fatti prigionieri dietro pagamento di un riscatto, durante il dibattito in senato su quella proposta le donne si adunarono affinché si rispondesse positivamente, “tendendo le mani verso il Senato e pregando che si restituissero loro i figli, i fratelli, i congiunti”.
Altrettanto fecero per protesta e per ottenere l’abolizione di una legge che vietava loro l’esibizione di vesti e gioielli, mentre ai mariti erano concessi manti di porpora e cocchi equipaggiati magnificamente. Ci volle del bel tempo, ma in tarda età imperiale lo stravagante imperatore Eliogabalo istituì addirittura un senato formato da sole donne; stabilì quale di esse poteva guidare un cocchio trainato da cavalli o invece da asini, e chi poteva farsi trasportare su una lettiga fatta di cuoio o no.