Quando il Ticino era il crocevia dell’opera

LUGANO - Poteva bene darsi delle arie, cent’anni fa, il Ticino. Poteva piangere lacrime liriche, versare commozione in do di petto, far risuonare gorgheggi di partecipazione. Morivano infatti proprio nel cruciale 1919 tre grandi dell’opera che, in un modo o nell’altro, si erano voluti connettere al suo territorio. Con racconti letterari illustrati di righi, chiavi, tempi, scale, semibrevi, minime, semiminime, diesis, bemolli e orchestrazioni varie avevano saputo divertire, intrattenere, appassionare e nutrire amicizie locali. Importa assai poco quali ragioni li avessero portati nel cantone: il caso, la sorte, una vacanza, l’esilio inevitabile, alcune amicizie. Tra i suoi paesi e le campagne, le sue pievi e le residenze, i suoi pianoforti e i fogli pentagrammati, avevano comunque esercitato l’arte della musica e quella del farsi conoscere, riconoscere, apprezzare. Ammirando i panorami, il clima, la gente, erano riusciti a portare avanti abilmente, nella serenità di un posto tranquillo, la loro brillante professione da maestri. Il giorno 11 maggio a Lugano, dove dimorava da un ventennio, rendeva innanzitutto l’anima Ferdinando Fontana.
La disfida di Vacallo
Ai più, oggi, il suo nome evocherà magari soltanto spruzzi e scrosci. Ma questo milanese irrequieto e sobrio che nacque nel 1850, che non passò per scribacchino con la penna di poeta e commediografo, che s’infiammò per le sfrontatezze degli scapigliati e per le insurrezioni dei socialisti, che si rifugiò in zona elvetica dopo una condanna penale ma decise di restarvi da esule volontario, che abitò pure la Casa Camuzzi di Montagnola divenuta successivamente piacevole a Hermann Hesse, riluce per i lavori d’esordio di Giacomo Puccini: Le Villi ed Edgar. Realizza lui i libretti per quelle trame fantastiche e romantiche, immaginose e convincenti, suggestive e intriganti, a loro volta ispirate dai testi di Alphonse Karr e Alfred de Musset, che si popolano di creature mitologiche e donne della porta accanto, si attorcigliano di sotterfugi e inganni e paure, esplodono nel colpo di scena. Versi che fanno sbarrare gli occhi perfino nella voce narrante a chi spande a cuor leggero parole di tenerezza, affetto, desiderio: «V’è nella Selva Nera una leggenda / che delle Villi la leggenda è detta / e ai spergiuri d’amor suona tremenda. / Se muor d’amore qualche giovinetta / nella selva ogni notte la tregenda / viene a danzare, e il traditor vi aspetta; / poi, se l’incontra, con lui danza e ride / e, colla foga del danzar, l’uccide». Ruggero Leoncavallo se ne andava invece dal nostro mondo il 9 agosto 1919. Napoletano di nascita (1857), pronunciava l’addio a Montecatini Terme. Ma i suoi soggiorni ticinesi pesano, nel profilo biografico e di Euterpe, per la formazione intellettuale, la struttura compositiva, l’ascesa della carriera. Il primo a riconoscerlo è lui stesso, che perciò espresse il desiderio di venire tumulato nel locarnese. A Vacallo, avendo come vicino di casa nientemeno che il villeggiante Puccini - uscio a uscio, finestra a finestra, uno alloggiato all’Osteria Rizza e l’altro dai Tettamanti - in pochi mesi del 1892 Leoncavallo porta a termine, annotando tutto compulsivamente, il successo Pagliacci: storia nervosa, sanguinosa, orrida. Sotto le insegne del verismo, ecco l’episodio delittuoso. Il fatto di cronaca nera che lo muove è vero, si dice accaduto nel Meridione d’Italia. In scena si ritrovano tradimenti e gelosie, sfuriate e mezzucci, in un esperimento riuscitissimo di teatro nel teatro finché giunge l’urlo del sipario conclusivo: «La commedia è finita!». Peccato che sia, in realtà, una tragedia. E quanto atroce. Pezzi indimenticabili e indimenticati sorreggono il dramma. Dal quel «vesti la giubba e la faccia infarina. La gente paga e rider vuole qua. E se Arlecchin t’invola Colombina, ridi, Pagliaccio... e ognun applaudirà» al «no, Pagliaccio non son. Se il viso è pallido, è di vergogna, e smania di vendetta». Ruggero presta addirittura una manina a Giacomo per dare vigore, nella genesi complicata e difficile, alle follie giovanili, alle passioni negate e vissute di Manon Lescaut. E i due si prendono rispettivamente in giro appendendo alle rispettive porte un pagliaccio bambolotto e un telo con il disegno di una mano enorme: ironie dei sommi. A inizio Novecento, con gli strumenti resi ormai possibili dalla fama, Leoncavallo si fa costruire Villa Myriam a Brissago. Vi starà per oltre un decennio e sarà per lui una fase di creatività formidabile. Nella primavera del 1904, essendo ormai cotto a puntino, cioè innamorato perso dei luoghi e degli abitanti, come supremo atto di riconoscenza in replica all’ottenimento della cittadinanza onoraria farà rappresentare il suo Pagliacci al teatro di Locarno brandendo la bacchetta della direzione. Sempre in Ticino si trovava, nel biennio 1906-7, ospite nel Castello di Trevano, anche il giornalista e librettista Luigi Illica. Indisciplinato, avventuroso, giramondo, caratterino per niente malleabile ma largamente fruttifero, ampiamente produttivo, lascia la vita il 16 dicembre 1919 nel paesino natale presso Piacenza (Castell’Arquato, dov’era nato nel 1857). Collabora con Fontana, con gli editori Ricordi e Sonzogno. Rimane celebre per aver firmato (insieme a Giuseppe Giacosa) veri trionfi pucciniani come La Bohème, Tosca, Madama Butterfly: metafore di individui e di esistenze, allusioni iconiche, pezzi dell’universale intero; insomma, capolavori. È inoltre l’autore dell’orientaleggiante Iris di Pietro Mascagni e della storiografica Andrea Chénier di Umberto Giordano: originale esempio di vicenda scaturita da documenti invece che da novelle.
L’aria del Ceresio
Mentre si compie un’epocale svolta stilistica dal melodramma veristico al simbolismo di matrice dannunziana, a Figino arriva, nell’estate del 1913, il musicista Riccardo Zandonai. Le stanze di Villa Conchita, lo stabile edificato dall’amico Tancredi Pizzini e che nel nome omaggia proprio una sua opera, lo vedono buttare giù buona parte della Francesca da Rimini, provarne i ricami sonori con la corvina, esile, focosa, emotiva soprano Tarquinia Tarquini (nel giro di qualche anno diventerà sua moglie), ricevere l’editore Tito Ricordi. Insomma, terre e acque ticinesi hanno fornito spazi fisici e ambienti mentali, solleticato immaginazioni, alimentato ispirazioni. Hanno offerto un contributo, senza dubbio pregiato, al fatto che poetici vocaboli in rima ed eccezionali partiture diffondessero universalmente la grandezza armonica, la lingua, la cultura italiana. Sulla scia lacustre di archi e fiati e percussioni, tra violini e flauti, viole e oboi, violoncelli e trombe, nei timbri vocali modulati con sapienza si è lanciato un proselitismo in testo e note che dalle province ha conquistato il mondo.