Il caso

Quando il vinile fa figli e figliastri

L’industria del trentatré giri stava vivendo una seconda giovinezza, poi è arrivata la crisi delle materie prime – Le attese per una copia fisica possono arrivare fino a sei mesi, anche se le etichette più grandi sanno come «saltare la coda»
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Marcello Pelizzari
14.12.2021 20:14

Lo dicevano, anni fa, i Doors. Parafrasiamo alla bell’e meglio: strani giorni ci hanno trovato. Strano, quasi paradossale, è certamente il rapporto fra la pandemia e il vinile. Il caro e vecchio trentatré giri, già. Se da un lato il confinamento ha contribuito all’aumento delle vendite di dischi, dall’altro lo stop alla produzione e la susseguente crisi delle materie prime ha causato non pochi problemi. Qualcuno, a giusta ragione, l’ha definita la tempesta perfetta.

Un grosso guaio, si direbbe. A maggior ragione guardando i numeri. Perché sì, la catena del vinile stava vivendo una seconda giovinezza. Nel Regno Unito, uno dei mercati principali in termini artistici ed economici, le vendite sono passate da 0,2 milioni (2010) a 4,8 milioni (2020). A livello globale, nel 2020 la cifra d’affari ha raggiunto il miliardo di dollari. Urca. Ora, tuttavia, le etichette sono in difficoltà. Estrema. La stampa di un disco è diventata insostenibile. Meglio, a preoccupare è l’attesa del prodotto finale. Prima di ricevere una copia, infatti, possono passare addirittura sei mesi. Un’eternità. Troppo perfino per chi, nell’universo indipendente, mette al primo posto la qualità e non la velocità.

Il peso della beffa
Detto del danno, alle etichette indipendenti tocca sopportare pure il peso della beffa. Proprio così: le major, quelle che lottano per gli artisti più famosi o, se preferite, le galline dalle uova d’oro, hanno ancora un minimo di margine. Le altre, legate ad artisti o generi di nicchia, soffrono. Alcune, ad onor del vero, hanno già ceduto il passo o stanno per farlo. I nodi principali riguardano il petrolio e il legno. Il calo di produzione del primo ha provocato forti tensioni sul polimero, essenziale per fabbricare vinili; la mancanza del secondo sta avendo un impatto sulla produzione di carta e cartone, essenziali per le copertine.

Al quadro, desolante, bisogna aggiungere l’uscita dal primo lockdown e il numero monstre di ordini. L’effetto, nelle fabbriche, è stato quello del collo di bottiglia: troppe comande a fronte di una capacità ridotta. A farne le spese, appunto, sono stati i protagonisti più piccoli del settore. Impossibilitati a garantirsi un posto in cima alla fila, a differenza delle major. Un esempio? Columbia, con Adele, ha bruciato la concorrenza in attesa garantendosi 500 mila copie in tempi normali. Stando agli esperti, i ritardi caratterizzeranno anche il 2022. Ahia.

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La fragilità della catena, d’altra parte, era stata messa a dura prova anche prima della pandemia. Ci riferiamo all’incendio della Apollo Masters, in California, a inizio 2020. A bruciare, beh, fu uno degli unici due posti al mondo in cui si producevano dischi di lacca, necessari per assemblare le piastre master per la stampa dei vinili. All’epoca la struttura era responsabile del 70-85% della totalità di lacche in circolazione. Ergo, l’unico altro stabilimento – in Giappone – venne immediatamente sommerso di ordini.

Non finisce qui, ahinoi, perché quella del vinile è un’arte antica. Tramandata di generazione in generazione e, ad oggi, riservata a pochi eletti. Per evadere i tanti, troppi ordini che giacciono nelle varie fabbriche – hanno suggerito alcuni – si potrebbe aumentare la capacità produttiva. Ma dove si può reperire manodopera attrezzata in breve tempo?

Pazienza, ma non solo
La pazienza, all’improvviso, è diventata una virtù essenziale. La parola resilienza, di riflesso, è entrata nel vocabolario di molte etichette. Impossibile fare previsioni, preparare lanci, gestire un calendario delle uscite. Pazienza, resilienza e, quindi, improvvisazione, se così vogliamo chiamare l’arte di arrangiarsi.

Peccato, sostengono i più, che questa crisi cada in un periodo altrimenti florido sul fronte creativo. E, anche qui, la pandemia ha giocato un ruolo essenziale. Un periodo fra l’altro caratterizzato dalle accese e aspre polemiche attorno ai servizi streaming, con Spotify in cima alla lista dei cattivi per le percentuali riservate agli artisti. Insomma, proprio quando il vinile pareva sul punto di (ri)sfondare la catena si è inceppata. Mostrando tutti i suoi limiti e i suoi difetti.

Un periodo florido, tornando a noi, che ha spinto molti musicisti a rimettere mano a pezzi lasciati in un cassetto a decantare o a scriverne di nuovi. E, unendo i puntini, a rivolgersi alle varie etichette indipendenti per stampare un disco.

L’ingresso dei giganti
L’orizzonte, concludendo, è piuttosto cupo. Qualche etichetta ha ripiegato sui CD o addirittura sulle musicassette, oggetti mitologici destinati a una nicchia ancora più di nicchia. Altre ancora si sono rassegnate a pubblicare in streaming o su formati differenti il giorno X e, nel caso del vinile, ad accettare una pubblicazione più in là nel tempo. Le etichette piccole, sia quel che sia, vivono il momento con parecchia frustrazione. Loro hanno fatto resuscitare il vinile ma, ora, si vedono schiacciate dalle major. Anche pensando al prezzo finale, in continua ascesa. Complici iniziative quali il Record Store Day, nato nel circuito indipendente mentre l’industria era in ginocchio e diventato, con il passare degli anni e la discesa in campo di giganti come Universal e Sony, una specie di Black Friday del disco. Una finaccia...