Quando la donna ha cambiato la società

Esattamente un secolo e mezzo fa, nel 1869, John Stuart Mill diede alle stampe il breve saggio La schiavitù delle donne (The Subjection of Women). Il grande pensatore liberale vi si riproponeva di sradicare il sentimento sociale «potente ed universale» che attribuiva all’uomo una superiorità, da non dimostrare, sulla donna. «Io credo che le relazioni sociali dei due sessi, che sottomettono l'un sesso all'altro in nome della legge, sono cattive in sé stesse, e costituiscono oggidì uno dei precipui ostacoli che si oppongono al progresso dell'umanità: io credo ch'esse debbono dar luogo ad una perfetta eguaglianza senza privilegio, né potere per l'un sesso, come senza incapacità per l'altro». Dovettero passare cent’anni perché il Canton Ticino riconoscesse il diritto di voto e di eleggibilità alle donne (il 2019 è una ricorrenza importantissima), ponendo termine a quella che era stata fino ad allora una semi-democrazia. Quanto tempo e quante battaglie sono state necessarie in tutta Europa per mandare in soffitta lo stereotipo della donna odalisca o ancella, donna fatale o angelo del focolare. Nella coppia sposata la moglie, quale essere subordinato, inferiore, era assoggettata al marito, che la proteggeva e rappresentava: così decretavano i codici civili di molti Paesi, primo fra tutti il Codice napoleonico. La liberazione è stata una strada irta di ostacoli. Le arti e le lettere l’hanno percorsa fornendoci, con i loro capolavori, straordinarie chiavi di lettura che assemblano ragione ed emozione, conoscenza e sentimento, come solo la creatività umana sa proporre, attivata dall’ispirazione, sorretta da tecniche pienamente padroneggiate e spinta dalla ricerca del nuovo e dell’originale.
Un singolare e affascinante itinerario di questa difficile e accidentata emancipazione è presentato in una mostra inaugurata alla fine di marzo al Museo Carmen Thyssen di Malaga e aperta fino al prossimo 8 settembre: Perversidad. Mujeres fatales en el arte moderno. 1880-1950 (Perversità. Donne fatali nell’arte moderna. 1880-1950). Un’esposizione da non mancare se ci si reca in terra andalusa, nella capitale della Costa del Sol, per le prossime vacanze estive. Sono 71 le opere esposte: da Georges Clairin a Francesc Masriera, da Pablo Picasso a Salvador Dalí, da Kees van Dongen a Franz von Stuck, da Ignacio Zuloaga a Suzanne Valadon, da Henri Thomas a Man Ray, da Gustav Klimt ad Amedeo Modigliani, da Olga Sacharoff a Maruja Mallo, da Auguste Chabaud a Félicien Rops. Uno straordinario caleidoscopio sulla percezione della donna nel passaggio da una società all’altra.
«Durante il XIX secolo e agli inizi del XX, l’insieme della società era dominato da un universo maschile che imponeva costumi morali e canoni estetici. La sensazione di paura di fronte alla perdita di uno status privilegiato, provocato dal pericolo dell’incorporazione della donna in diversi ambiti della vita, ha generato un racconto reazionario e artificioso» scrive Lourdes Moreno, direttrice artistica del museo, nell’introduzione al catalogo della mostra. «A partire da quel momento venne costruita, risolutamente, l’immagine di una donna sottomessa o maliziosa, perversa e provocatrice della fatalità dell’uomo, nell’ambito di una sensualità estetica segnata dal romanticismo lirico, dal dandismo, dal decadentismo con il loro amore per le sensazioni artificiali».
Un tentativo fallito di soffocare l’emergere sociale della donna e il suo divincolarsi dagli schemi ottocenteschi. Nei primi anni del Novecento «la situazione cominciò a cambiare sottilmente, da un lato, non solo con lo sguardo delle donne pittrici, inserite in un mondo di uomini, ma anche a partire da altre figure femminili che conseguirono successo e riconoscimenti nelle loro professioni, come nel caso di Coco Chanel, di muse carismatiche quali Kiki de Montparnasse o personaggi poliedrici come Gala Dalí», scrive ancora Lourdes Moreno. «Queste nuove donne libere e risolute, indipendenti e potenti, hanno saputo avanzare oltre le attese e offrire una visione distinta della loro percezione del mondo».
L’itinerario che ci conduce lungo questa emancipazione è scandito dalle tre sezioni in cui la mostra è suddivisa, con titoli fortemente connotativi: Belleza maldita (Bellezza maledetta), Reinas del abismo (Regine dell’abisso) e Nuevas mujeres (Nuove donne). Nella prima domina l’archetipo della femme fatale «come reazione misogina alla progressiva rivendicazione da parte delle donne di un cambiamento del loro ruolo nella società». Ne scaturiscono opere che propongono «un’immagine della donna accattivante e perversa, incarnazione del peccato, con un potere di attrazione magnetico e fatale per le sue vittime maschili». Straordinario a questo riguardo l’olio su tela Sarah Bernhardt di Georges Clairin (1843-1919). La celeberrima attrice teatrale, «uno dei personaggi più sovversivi della sua epoca», è dipinta da Clairin come una «pericolosa seduttrice», sdraiata su un lussuoso divano, nella semioscurità, avvolta in un abito sontuoso fatto di pizzi e trasparenze, sicura di sé, timorosa di niente e di nessuno, la testa sorretta maliziosamente dal braccio destro, mentre il sinistro si allunga languido e sensuale sull’ampio bracciale; sul volto, bellissimo, una sovrana indifferenza per chi è lì, fuori campo, osservato con uno sguardo di distratta, distaccata e quasi derisoria compassione. Non si sa se l’attrice sia stata ritratta in una recita o in una scena di vita quotidiana. Il dipinto non offre appigli. E poco importa del resto: la «sensualità felina» di Sarah Bernhardt agisce nel teatro della vita.
Nella seconda sezione troviamo una galleria di donne della notte e della vita moderna. A cavallo tra Otto e Novecento «si impone nell’ambito urbano una nuova visione della donna come protagonista di un universo abissale popolato da idoli erotici e potenti, di insaziabile sessualità. Un’affascinante femminilità che si mostra nella letteratura e nell’arte principalmente attraverso i diversi volti della prostituzione». E nella «sordidezza clandestina si esibiscono di notte altre donne enigmatiche e moderne: le femmes fatales della Belle époque», con una «iconografia definitivamente sganciata dalla femminilità borghese, docile e onesta». Paradigmatica figura di donna libera della Belle époque è Suzanne Valadon (1865-1938). La sua Femme aux bas blancs (Donna con calze bianche) del 1924 illumina la sezione ed è stata scelta per la copertina del catalogo. Modella di grandi pittori come Degas, Toulouse-Lautrec e Renoir (nella celebre Colazione del 1881 è dipinta due volte allo stesso tavolo), giovane madre di Maurice Utrillo, compagna, amante, duratura o occasionale, di diversi artisti di cui fu la musa, Suzanne Valadon apprese l’arte del dipingere osservando coloro che la dipingevano. Fu la prima pittrice ad entrare nella Società nazionale francese delle belle arti. La sua Donna con calze bianche è agli antipodi dei due capolavori, con lo stesso titolo, di Delacroix e Courbet: sensualità svanita, una sgraziata posa seduta con le gambe accavallate, in un’attesa annoiata e rassegnata per la routine; nell’espressione passiva del volto il rammarico per una gioventù probabilmente sprecata da scelte di vita che avrebbero voluto essere altre.
Spetta allora alle «nuove donne» il riscatto. Sono loro a dominare la terza sezione, a sfidare «l’ordine stabilito da un patriarcato egemonico», a partecipare alle riforme sociali, a mostrarsi «libere, disinibite, audaci, intelligenti e alla costante ricerca del successo professionale e dell’emancipazione economica».
La campionessa delle nuove donne è Coco Chanel, di cui la mostra presenta il ritratto che ne fece Man Ray nel 1935, ma il quadro che più colpisce, cogliendo l’essenza di questa rivoluzione sociale, è l’olio su tela Las universitarias (1934) del madrileno Rafael Pellicer (1906-1963). Le due studentesse sono anch’esse sedute, ma su un banco dell’ateneo; la protagonista appoggia i piedi sull’altro banco, sfidando le buone maniere; ha sulle ginocchia una rivista cinematografica, le calze bianche son calzini anti-sensuali, mentre lo sguardo intelligente e deciso guarda a un futuro nuovo, diverso, che non sarà come il presente scontato e ingabbiato della madre, né tantomeno come quello subordinato della nonna.