Quando Rilke cercava rifugio in Bregaglia

L’estate di un secolo fa, Rainer Maria Rilke giungeva nel villaggio di Soglio, in Val Bregaglia, per soggiornare lungamente a Palazzo Salis, già allora trasformato in un magnifico hotel.
Il più grande poeta di lingua tedesca dell’età moderna, già divenuto apolide dopo lo schianto dell’Impero austro-ungarico dove aveva avuto i natali (a Praga, nel 1875), venne in Svizzera, inconsapevole che, di lì a pochi anni, vi sarebbe morto. Dominato dall’oscuro senso del dolore della vita, interprete dell’acuta provvisorietà dell’uomo, che avverte l’incomunicabilità con la natura, in continuo solitario esilio da se stesso, anima errante nella fragilità e nel disordine crescente del mondo in impetuosa trasformazione e disumanizzazione, questi è stato forse l’ultimo, insigne rappresentante, allo stato puro, dell’homme de lettres, prima del tradimento dei chierici, e della corruzione di generazioni di intellettuali dentro i torvi cortocircuiti dell’engagement.
In fuga da se stesso
Già profondamente calato nelle avanguardie culturali europee, a cavallo tra Otto e Novecento, Rilke fu attratto dall’opera scultorea e pittorica di Auguste Rodin, tanto da fungerne, per alcuni anni, da segretario, instaurando un’amicizia che conobbe anche una rovinosa rottura seguita da rappacificazione.
Nell’autore delle Elegie duinesi, si trova la sintesi originale di una nuova poetica, che attinge alla lezione dei simbolisti, a Nietzsche, a Schopenhauer, ma anche all’opera tolstoiana, giungendo a forme di espressionismo che si ricongiungono agli albori della psicanalisi.
In quella sua consumazione di se stesso, dal di dentro, come in un anticipo del male oscuro che lo avrebbe ucciso, Rilke arrivò a Soglio, sicuramente già nel mese di luglio del 1919. A Palazzo Salis, conobbe Gudi Nölke, con la quale stabilì una duratura amicizia e intrattenne un lungo carteggio, com’era nelle sue corde. Nel villaggio dei Grigioni, il letterato si rituffò nella sua frenesia di accanito epistolografo.
Il 6 agosto, scrisse alla contessa Aline Dietrichstein, e il 21 dello stesso mese vergò una lunga missiva manoscritta di otto pagine a Yvonne von Wattenwyl, mentre il 12 settembre, prima di ripartire per altri lidi elvetici, ne indirizzò un’altra a Gertrud Ouckama Knoop. Da un’epistola a Elisabeth von Schmidt-Pauli, del 14 agosto, apprendiamo le sue impressioni sul paesaggio che lo inebriava: «La Svizzera di certo non è il Paese adatto a me; mi colpisce sferzandomi come uno di quei nudi dipinti o modellati che mirano a concentrare tutte le “bellezze” di molte donne in una sola figura; perciò, se io non mi sbaglio, l’estetica della Svizzera per noi è abominevole».
Spirali di autocoscienza
Non suona certo come un elogio, del resto Rilke era come assorto in una delle spirali di quello stato febbrile di autocoscienza che acuiva il suo trasporto estetizzante verso la bellezza.
In una celebre lettera del 2 agosto 1919, a Lisa Heise (che precede una seconda, alle medesima destinataria, del 30 di quello stesso mese), egli descriveva il suo «naufragar» nel dolce mare di leopardiana memoria, richiamandosi alla funzione della contemplazione dell’opera d’arte, come forma illusoria di fuga dall’alienazione.
L’opera d’arte, spiega, sta di fronte agli uomini come la natura, è quindi un sistema chiuso, inaccessibile, privo di un significato conoscibile. Essa, dunque, è «impartecipe», «in sé colma, a se stessa affaccendata»: cioè, diremmo, oggi, è autoreferenziale.
Pur però trattenuta «dal volere che la determina», essa «contiene» un «tesoro d’inesauribile consolazione», che proviene dall’elemento umano (dagli «estremi di patimento e gioia» di cui è tramite l’artista: un turbine di stati emotivi, di apollineo e dionisiaco, si direbbe, richiamando l’amato Nietzsche).
Quindi, pur essendo manifestazione d’arroganza «pretendere aiuto da un’opera d’arte», nelle situazioni di smarrimento, è umano, anche se ingannevole, cogliere nell’oggetto artistico un mezzo per intrepretare e tradurre in qualche modo la natura che ci è ostile e ci turba.
Una mente così originale, da essere profeta che vaticina i nostri tempi, attrae, ogni anno, a Soglio, colti visitatori, da tutta Europa.
Studiosi e cultori si contendono, spesso a colpi di prenotazioni anticipate di mesi, se non di anni, la stanza numero 15 dell’Hotel Salis, alle cui pareti sono state affisse le pagine della lettera a Yvonne von Wattenwyl, prima citata.
Questa camera è stata dedicata a Rilke, anche se non vi è l’assoluta certezza che si tratti proprio di quella abitata dall’autore del Diario fiorentino. Chi scrive ha potuto sbirciare nella stanza 15, fotografandola anche. Il che ha riempito d’estasi, nel momento in cui il rito si è compiuto, una professoressa di Amburgo che, pur ospite dell’albergo da settimane, non aveva mai potuto accedere al «santuario» in quanto occupato da un altro cliente.
L’intellettuale tedesca si è incollata all’autore di questo articolo, e, giunta sulla soglia di quel tempio memoriale, non ha potuto fare a meno di esclamare: «Oh! Wunderbar!».
Migrazioni elvetiche
Lasciata Soglio, Rilke, al termine dell’estate di cent’anni fa, migrò tra varie località elvetiche, da Losanna a Ginevra e a Brissago. Tra la fine del 1919 e l’inizio del ’20, fu a Locarno, alla Pensione Villa Muralto.
E proprio, da lì, il 19 febbraio 1920, scrisse questa nuova lettera a Lisa Heise, in cui risuonano echi del suo disagio: «Soffro lunghi periodi di aridità, in cui la penna mi fa orrore». Quindi si scusa per non aver tempestivamente risposto alla precedente missiva dell’amica, datata 28 settembre 1919: «quando arrivò quella vostra ultima lettera, avevo già dovuto rinunciare al mio rifugio di Soglio, e così s’iniziò un’instabile esistenza d’albergo, che a me resta sempre così infeconda per ogni sorta di corrispondenza, parte perché gli alberghi, anche i cosiddetti migliori, non offrono mai un luogo adatto per scrivere, o al più per commis voyageurs, parte perché allora ogni volta mi circondano tante relazioni personali e orali che mi prodigo tutto da quel lato». Nel corso del 1923, le condizioni di salute del poeta cominciarono a peggiorare, tanto da rendere necessari i primi ricoveri ospedalieri. Sofferente di dolori intestinali, fu in cura dal dottor Hämmerli. Il decorso della sua malattia divenne spaventosamente drammatico, nel corso del 1926. Alcuni medici di Zurigo, consultati da Rilke, esclusero si trattasse di tumore, come temeva il letterato. Verso la fine di novembre di quel 1926, la «bestia» che gli divorava il corpo ebbe finalmente un nome: leucemia acuta.
Morì il 29 dicembre successivo, a soli 51 anni, per essere sepolto nel piccolo cimitero di Raron, nel Vallese.