L’intervista

«Quando sfiorai una jam con Coltrane»

Il jazzista luganese Franco Ambrosetti parla del suo nuovo disco e del suo recente libro autobiografico
Red. Online
23.08.2019 06:00

Un libro autobiografico dal singolare titolo La scelta di non scegliere (Vanni Editore), un disco – Long Waves – realizzato a New York con un poker di musicisti da brivido (John Scofield alla chitarra, Uri Caine al piano, Jack DeJohnette alla batteria e Scott Colley al basso) e un paio di concerti importanti tra cui quello di Estival Jazz assieme ai musicisti della «sua» Scuola di musica moderna. Insomma, quella del 2019 è stata per Franco Ambrosetti un’estate intensissima, alla faccia del ruolo di «pensionato» che il celebre jazzista e industriale luganese da qualche tempo dice di aver assunto. Lo abbiamo intervistato.

Quando si parla di pensione tutti si immaginano giornate all’insegna del relax. Non mi sembra sia il suo caso.

«Il fatto è che ho sempre svolto due mestieri. E che sono andato in pensione solo da uno; l’altro invece mi accompagnerà per il resto della vita. Anzi mi occupa molto più di prima. Faccio meno concerti, è vero, però il resto lo faccio addirittura con più intensità rispetto a prima: scrivo tanta musica, preparo nuovi dischi e altro ancora».

E ha pure scritto un libro: La scelta di non scegliere. Titolo che è un po’ il sunto della sua attività di musicista ed industriale. Due mestieri non facili da conciliare.

«Vero, ma d’altronde non potevo fare altrimenti. Secondo la mia famiglia era necessario che facessi l’industriale per portare avanti l’azienda; io volevo invece suonare. E invece di scegliere ho deciso di fare entrambe le cose: di non scegliere, appunto. E ha funzionato. È stato impegnativo, certo, ma da un certo punto di vista facilitato dal fatto che erano due professioni da svolgere in un ambito internazionale: se la prima avesse implicato dover operare in un luogo fisso con orari rigidi, forse sarebbe stato difficile conciliarle. Comunque sia ce l’ho fatta».

Ma ha sempre dovuto imporsi, come spiega nel libro, molta disciplina.

«Assolutamente. La tromba la devi suonare tutti i giorni per esercitare il labbro. E quando dico tutti i giorni intendo davvero tutti i giorni: poco importa se sei, ad esempio, in Scandinavia per vendere ruote (che è l’altro tuo mestiere): devi trovare tempo e modo di farlo. Magari suonando tra i vestiti».

Può spiegarsi meglio?

«Beh, quando ero in albergo e dovevo suonare aprivo un armadio, mi ci sedevo davanti e infilavo la tromba tra i vestiti che assorbivano tanto il suono. Nel frattempo accendevo anche un televisore con il volume abbastanza alto in modo che se qualcuno sentiva non capive bene cosa stesse accadendo. Perché se intuiva che stavi suonando correva a reclamare, se invece pensava che stessi guardando la tv non rompeva le scatole. È un trucco che ho usato negli alberghi di tutto il mondo e che, assieme a tanti altri aneddoti, ho raccontato nel libro».

Nel quale ci sono anche tanti luoghi. La Zurigo degli anni 60, ad esempio, che lei dipinge come un luogo di grande creatività: al contrario della città grigia e fredda che di solito immaginiamo.

«Ma Zurigo era una città grigia, fredda, dove la disciplina era importante e dove dovevi parlare sottovoce sul tram perché altrimenti ti guardavano storto. Era la città di Schwarzenbach in cui, se come me non avevi il fisico da nordico e un perfetto accento svizzero-tedesco, venivi trattato male. L’unica fortuna è che il jazz si suona in luoghi dove non si fanno distinzioni di colore e di razza: suoni e trovi il calore umano che ti serve. Ecco, a Zurigo c’era un club, l’Africana, dove tutto questo accadeva e dove si era creata una piccola avanguardia jazzistica, meno importante di quella dadaista degli anni Venti, ma propositiva e che guardava molto a New York».

Un altro suo luogo dell’anima.

«Vero, ma perché è un po’ la patria del jazz. Che è nato sì a New Orleans, ma che poi si è spostato a nord risalendo il Mississippi, con l’emigrazione legata alla depressione degli anni Venti: verso Kansas City prima, poi a Chicago e a New York che ancora oggi è il centro di tutto quello che succede: lì ci sono infatti i migliori musicisti, i migliori studi di registrazione: ed è anche per questo che ho sempre cercato di realizzare lì i miei dischi».

A proposito di dischi, nel suo recente Long Waves, registrato a New York assieme a quattro grandi musicisti, emergono due suoi grandi amori: sua moglie Silly e Miles Davis, ai quali fanno riferimento ben quattro brani su sette.

«A Silly ho dedicato tanti brani tesi a celebrare lo splendido rapporto che viviamo ormai da più di vent’anni. Miles, beh, è vero: assieme a Coltrane è stata una delle mie fonti di ispirazione per il suo spirito di band leader e per il lirismo profondo che ha sviluppato negli anni e che l’ha portato ad esprimere con poche note tante sensazioni e sentimenti».

E Coltrane?

«È stato un maestro dal profilo strumentale, con il quale ho anche “sfiorato” una jam session».

Vuole raccontarci l’episodio?

«Ero andato a vedere un suo concerto. E visto che conoscevo il suo batterista, Elvin Jones (che era un amico di mio papà), ne ho approfittato per conoscerlo e l’ho invitato dopo il concerto all’Africana. Lì siamo stati seduti a chiacchierare un po’ ascoltando Dollar Brand che suonava. Poi gli ho chiesto se voleva suonare qualcosa. Lui mi ha risposto: “Comincia tu”, allora sono salito sul palco e ho iniziato un pezzo. Quando stavo finendo il mio assolo e Coltrane stava preparandosi con il suo sax, il proprietario, visto che era mezzanotte meno cinque e che a mezzanotte scattava la “Polizeistunde”, è corso verso di lui urlando in tedesco che bisognava assolutamente chiudere. Lui l’unica cosa che ha capito è “Polizei” cosicché ha rimesso via in tutta fretta il suo sax tra la delusione di tutti i musicisti di Zurigo che erano lì, aspettando di sentire Coltrane e di fare una jam con lui (come capitava spessissimo di fare). Ma quella era la Zurigo di allora».

Abbiamo citato due grandi musicisti con cui ha avuto a che fare: ma quali sono quelli di cui ha un ricordo più caro?

«Partirei da George Gruntz che è stato come un secondo padre, che mi ha fatto suonare molto ma soprattutto mi ha insegnato tante cose. Poi Daniel Humair che, come Gruntz, suonava con mio papà quando aveva 18 anni e io ne avevo 14 ma che mi sembrava appartenesse alla sua generazione sebbene fosse quasi un mio coetaneo: questi due fanno parte della famiglia. Poi direi Randy e Michael Brecker, soprattutto Michael che, pur da sassofonista, mi ha influenzato più di qualsiasi trombettista».

Guardiamo al futuro: dopo la calda estate 2019 cosa ha in programma?

«Sto cercando di realizzare un disco acustico con pianisti diversi: non sarà facile perché ho in mente nei nomi che non sono semplici da convincere. Ma ci provo. Poi farò un paio di concerti con i quali chiuderò la carriera nei club: stanno infatti diventando troppo faticosi i due o tre set a sera che richiedono. Continuerò comunque a lavorare in studio, a suonare tutti i giorni e a scrivere tanta musica».