L’intervista/ roberto leggero

Quegli svizzeri medievali, guerrieri ma diplomatici

Lo storico ripercorre le vicende delle terre ticinesi e la genesi della Confederazione
Giornico. Il monumento di Apollonio Pessina che celebra la battaglia dei Sassi Grossi del 1478.
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
17.12.2018 19:00

Assistente scientifico presso il Laboratorio di Storia delle Alpi dell’Accademia di architettura a Mendrisio, il ricercatore Roberto Leggero ha di recente pubblicato un corposo volume in cui, superando il carattere puramente diplomatico o militare delle vicende delle terre ticinesi tra il XII e il XVI secolo, sulla base di un’ampia serie di atti e documenti pubblici e privati, analizza come le necessità e le competenze «diplomatiche» e «politiche» indispensabili alle comunità rurali e alpine per amministrare e gestire efficacemente risorse naturali e proprietà collettive, abbiano contribuito in maniera rilevante a dare origine alla Svizzera moderna e alle sue peculiarità. Ne abbiamo parlato con l’autore, senza dimenticare l’opera inedita del comasco Alessandro Giovio Descrittione de otto cantoni de Suizzeri del 1547 esplorata nella seconda parte del libro.

Roberto Leggero, partiamo dal titolo piuttosto originale del suo studio perché, da chi e quando gli svizzeri furono definiti «domatori dei prìncipi»?

«In realtà sono molti a definirli così, dal famoso vescovo e storico Paolo Giovio, all’altrettanto celebre giurista e storico a sua volta, Jean Bodin, e altri ancora. Io ho preso in prestito la frase da un’opera inedita di Alessandro Giovio».

Questo ci porta subito a parlare dell’ultima parte del volume: vuole raccontarci chi era Alessandro Giovio e perché è importante la sua Descrittione de otto cantoni de Suizzeri da lei ampiamente illustrata?

«Alessandro, nato all’inizio del XVI secolo, era medico e poeta ma anche uno degli esponenti minori della celebre famiglia dei Giovio di Como. Tra i suoi più noti rappresentanti si distinguono Paolo, che abbiamo già ricordato e lo storico e filologo Benedetto, rispettivamente zio e padre del nostro eroe. Alessandro avrebbe dovuto subentrare allo zio nella carica e nella diocesi, ma la sua indole ribelle lo impedì e fu uno dei suoi fratelli a beneficiarne. La Descrittione è importante soprattutto per i problemi che pone al lettore, e dei quali sono venuto a capo solo in parte, come si capirà leggendo il libro. Questa è la differenza tra il giallista e lo storico: non tutti i pezzi si incastrano e spesso le prove sono insufficienti. A me ha colpito un brano nel quale Alessandro riporta una voce che circolava al tempo suo, e secondo la quale in breve la Svizzera si sarebbe trasformata in una monarchia. Con il senno di poi si potrebbe dire che la voce era sbagliata ma, spesso, l’esito dei processi storici appare ovvio solo a posteriori».

A colpire è soprattutto il suo approccio alla realtà del medioevo svizzero-italiano: non solo politica, diplomazia e vicende militari ma anche questioni economiche di gestione collettiva delle scarse risorse alpine in rapporto con il peculiare ambiente naturale delle nostre comunità rurali, valligiane e montane. Ce ne vuole spiegare le ragioni e illustrare qualche esempio particolarmente significativo?

«La ringrazio ma non sono poi così originale. Un grande medievista italiano, Giovanni Tabacco, una volta disse citando Wilhelm Wundt, che “l’eterogenesi dei fini dà al caos umano il senso di un cosmo”. Tradotto malamente si potrebbe dire che tutti i processi che lei richiamava sono mescolati tra loro e di questo bisogna tenere conto, indipendentemente dal livello dell’analisi. Così si evita di credere – cosa che uno storico non può permettersi – che esista una forza che guida tutti gli eventi, alla Hegel per intenderci. Io ho imparato al Laboratorio di Storia delle Alpi ad apprezzare la complessità della vita economica alpina e la vivacità imprenditoriale e politica dei comuni rurali delle valli ticinesi. Grazie al lavoro di tanti storici svizzeri – e tra questi vorrei ricordare il compianto Giuseppe Chiesi –, a opere come Materiali e documenti ticinesi, alla disponibilità dei bibliotecari e degli archivisti cantonali, è stato agevole approfondire temi come quello del rapporto tra i testamenti e l’ampliarsi delle risorse collettive dei comuni rurali. Per esempio, quando nel 1351 Giacomina di Zanino abitante a Bignasco, lasciava per testamento al comune pane e formaggio (buono, salato e del giusto peso) da distribuirsi annualmente tra i suoi concittadini, lo poté fare perché la garanzia economica era fornita da tre proprietà donate a un suo erede. Se però quest’ultimo non avesse ottemperato alle volontà della testatrice, il comune lo avrebbe facilmente privato dei beni che egli teneva in eredità. Nel libro cerco di mostrare come i beni comuni fossero un patrimonio complesso da gestire ma capace di adattarsi alle necessità degli abitanti dei comuni rurali e fondamentale per l’esistenza stessa di questi ultimi. Per esempio, quando nel 1445 Faido, Balcengo e Chinchengo, a causa della difficile situazione locale e per le tensioni che si registravano, giunsero alla conclusione di suddividere e spartire le proprietà fondiarie comuni tra le varie famiglie, nello stesso tempo, si preoccuparono di fare in modo che quei beni potessero rientrare in possesso delle comunità in caso di morti senza eredi e che non potessero essere venduti a chi non avesse avuto dimora stabile all’interno dei confini comunali. È un fenomeno che ho cercato di sintetizzare con il concetto di “elasticità” (la proprietà dei corpi di deformarsi sotto l’azione di forze esterne per poi ritornare alla forma originaria) e che, a mio parere, descrive il modo con cui i comuni rurali gestivano i loro beni collettivi. È un’idea che si oppone a una visione rigida dell’economia dei comuni rurali alpini. Certo, le condizioni ambientali erano più rigorose in montagna che altrove ma, spesso, si potevano trovare soluzioni efficaci per affrontare problemi difficili».

Con evidenti ricadute sulla strutturazione identitaria di quella articolata rete di alleanze, stratificate, intersecate e sovrapposte (quando non contrapposte) che già di per sé rendono la realtà svizzera del tutto eccentrica rispetto al resto dei coevi modelli europei, se capiamo bene...

«Sì. Lei ha colto benissimo uno dei punti fondamentali del mio lavoro, a cui tengo molto, ma che è anche il più discutibile. Lo storico Jon Mathieu, per esempio, che devo pubblicamente ringraziare perché è stato uno dei primi a leggere le bozze del libro, me lo ha cortesemente contestato. La mia idea è che le abilità negoziali che occorreva sviluppare per gestire i beni collettivi – assieme, naturalmente, ad altri fattori che sarebbe troppo lungo citare – siano state tra le competenze fondamentali per costituire la peculiare struttura istituzionale della Confederazione. Con una precisazione: tali abilità erano patrimonio comune anche di tante altre realtà al di fuori della Svizzera ma, quando alla fine del medioevo, altrove si affermano strutture politiche monocratiche, le capacità negoziali delle classi dirigenti rurali perdono d’importanza e si riducono a strumento, non sempre efficace, di contrattazione con il principe. E qui ritorniamo al titolo...».

A conclusione della sua analisi lei propone un originale parallelismo con la pratica e i rituali della lotta svizzera (lo Schwingen): per quali ragioni questa suggestiva metafora sportiva?

«Ha ragione. Si tratta di una metafora per inquadrare meglio quanto dicevo sopra. La gestione dei beni comuni implica avere continuamente a che fare con i propri vicini: aprire vertenze, processi, o anche scontrarsi fisicamente. Ma non è possibile né desiderabile annientare l’avversario anzi, esso va “tenuto in gioco”. Coerentemente con quanto detto sopra, quando all’inizio dell’Ottocento la Svizzera cerca, anche attraverso lo sport, di darsi un’identità politica più solida, dichiara lo Schwingen “lotta tradizionale svizzera”. Quella dello Schwingen è una bella “invenzione della tradizione”. Le regole di questa lotta, però, sono particolari: lo scontro si conclude quando uno dei due lottatori viene messo schiena a terra. Siccome il terreno di scontro è cosparso di segatura e i due contendenti sono sudati, lo sconfitto, e solo lui, si rialzerà da terra con la schiena completamente ricoperta di trucioli. È previsto dal regolamento che il vincitore, con un paio di vigorose manate, ripulisca il suo avversario. Il vincitore rimette in gioco lo sconfitto cancellando i segni dell’insuccesso e ristabilendo così la parità e la dignità di entrambi. Non sono molti gli sport che, in maniera esplicita come nello Schwingen, restituiscono dignità agli sconfitti. In genere ci si affida al fair play dei giocatori ma nello Schwingen sono le regole stesse del gioco che impongono un vero e proprio rito di (re)inclusione. Condurre insieme il gioco è più importante della vittoria. Io credo che le ragioni della complessità delle negoziazioni politiche interne tipiche della Svizzera del tardo medioevo e dell’età moderna, siano dovute alla necessità di “mantenere in gioco” i propri partner – penso ai rapporti tra i cantoni primitivi, i cantoni e le città – evitando loro di perdere dignità perché questo avrebbe indebolito anche l’eventuale vincitore. E perciò credo che lo Schwingen possa ben rappresentare l’elemento centrale della originalità politica svizzera che ha la sua radice – a mio parere –nelle pratiche di gestione collettiva dei beni comuni».