“Quella volta che portai al mare Giorgio Manganelli”

In verità, se non c'eravamo noi rettili,la palude non sarebbe mai diventata terra sacra.
Giorgio Manganelli
Scrivere un centinaio di pagine dedicate a uno – un gran scrittore, per inciso – che riteneva l'esistenza, nel peggiore e più probabile dei casi, «una frase sgrammaticata, un anacoluto», e nel migliore, cioè nel più poetico dei casi, «il digrignare di un universo vocale dentro un universo taciturno». Impresa, per quanto gratuita, che nessuno affronterebbe a penna leggera.
Può esser che Patrizia Carrano, con Un ossimoro in Lambretta (edizioni Italosvevo, pagg. 96, euro 13,00), non volesse far altro che raccogliere – per amicizia, affetto, memoria o per allucinazione – alcune immagini e frammenti su Giorgio Manganelli; s'è ritrovata, invece, in situazione d'involontaria letteratura, se dobbiamo dar retta, e la diamo, al soggetto inquisito, al Manga stesso: «Le letteratura dà disperazione ai disperati, urli agli assordati, abbaglieranno gli abbagliati e ai famelici, fame». Frase irta, sbagliata, anamorfica, vicinissima a come si sentiva, appartato in una vita passabilmente ordinata, chi la scrisse.
L'esattezza barocca del caso ha perciò voluto che Un ossimoro – pubblicato nella sospesa Trieste, stemma di un passato che non tornerà più e che forse tornerà, dopo la pioggia – cadesse preciso sull'oggi, quando in pochi sanno che farsene dei libri di Manganelli, un gran successo preciserebbe lui, e quando molti, di contro, sanno fin troppo bene che farsene dello spicciolo culto di tale conchiglia editoriale, di questa pozzanghera di bagnasciuga dove è riflessa, di nuovo per pochi, una delle più limpide, azzurre e fangose visioni della vita. Non abbiamo intervistato Patrizia Carrano, che è tra i pochi, abbiamo solo sfiorato una conversazione.
Manganelli, scrittore senza biografia; forse non è nemmeno vero che si nutriva, che cavillava sul vino, sulla temperatura del pecorino nelle taverne romane. Il suo è un libretto impossibile. Riporta quaggiù un incorporeo felino, fa strame del mito dell'irraccontabilità di Manganelli, e lo fa per amicizia.
«Colpa di Giovanni Nucci, cui mi lega un'antica consuetudine. Mi sentiva sempre parlare di Manganelli. Quando è diventato direttore della Piccola biblioteca di letteratura inutile per la Italosvevo mi ha chiesto, lui che ama questo scrittore quanto me, perché non scrivi quel che sai? Quel che so, non quel che ricordo, è importante ribadirlo. Ero amica di Giorgio, infatti, come ero molto amica di Fellini e Giulietta».
Perché una simile associazione?
«Dopo la morte di Federico, un fiume di gente prese a parlare di lui e non ha ancora smesso. Io, per me, mi rifugiai nell'ombra; è il mio carattere. Ed era già accaduto lo stesso con Manganelli. Ad oltre vent'anni di distanza alcune cose si sono placate e ho accettato l'invito di Giovanni, d'intesa che non avrei scritto né un memoir né un libro di aneddoti. Ecco com'è andata, fin qui».
Fu un ossimoro vivente, lo resta anche nelle sue pagine. Quant'è stato difficile scriverle?
«Non credo Manganelli abbia coltivato una leggendaria "irracontabilità" a proposito di se stesso. È vero che era una persona poco pubblica, molto difesa, schermata, che amministrava con grande fatica, e profonda perizia, i propri demoni. Ma era capace di veri incantamenti mentali, uno Sherazade con baffi e occhiali, piacevolissimo da frequentare. In questo, contiguo a Fellini. Ho fatto per qualche tempo da "ufficiale di collegamento" tra loro due. All'epoca mi sembrava normale, ora mi pare un privilegio assoluto».
Un Manganelli persino amabile.
«Spiritoso, divertente, affettuoso, accorto. Capiva i miei umori. Era una creatura di particolare disponibilità. Credo si possa leggere, da qualche parte nella raccolta Cantiere Manganelli, di quando un autore volle dargli a tutti i costi un manoscritto in lettura. "No, la prego, lasci perdere, mi creda". Alla fine accettò il malloppo e lo lesse durante la notte. La mattina dopo telefonò proponendo una piccola prefazione al libro. Non ricordo di che titolo si trattasse, chi fosse quella persona così insistente, si può andare a controllare, quel che voglio dire, ora, è che Giorgio aveva una gentilezza innata, non costruita, non artificiale. Ecco perché, alla fine, era più facile avere a che fare con lui che con molti altri».
Era comunque capace di vedere, cito Kafka, «i mostri invisibili nell'aria intorno a noi», i baratri vertiginosi, le paludi, i sorci nell'anima, nella psiche, nel cuore. La sua lucidità, negli ultimi anni, ha dello spaventoso. È un uomo che guarda nell'abisso, e l'abisso guarda in lui, affiorando dalla pagina, senza la consolazione della mistica.
«Innegabile. Le racconto un aneddoto che nel libro non c'è. Una volta gli diedi un passaggio in auto, da un ristorante di Porta Pia fino a casa sua. Eravamo sulla mia utilitaria francese, una di quelle scatolette di allora, una Citroën LN con un orologio digitale che non avevo mai impostato. Infatti segnava le 00:00. Manganelli lo osservò in silenzio, a lungo. A un certo punto disse soltanto: "Due terribili paia d'occhi"».
Sì, è lui.
«L'essere umano che scrisse La palude definitiva».
Che tipo di amicizia avevate?
«"Sei una creatura selvatica" mi diceva. "Hai un Super Io prussiano" scherzava da ex paziente junghiano, mentre io ero una ex paziente freudiana. Per lui ero "abbonata a spiritose catastrofi", ed ecco il segreto della nostra amicizia. Gli interessava tutto ciò che non è assiso al centro del mondo, che è periferico, e io ero così, l'età mi ha addolcito ma non cambiato, non ho mai costruito rendite di posizione né carriere particolari».
Manganelli sì, però. Divenne un editorialista famoso e ricercato, dallo stile geniale, inimitabile. In letteratura, si finisce senza accorgersene per avere tutti i suoi libri in scaffale.
«Posso dirle questo. Era consapevole delle qualità che il mondo gli riconosceva. Tuttavia era pure scomodo. Nel suo amore, ad esempio, per la letteratura del Seicento, che nessun editore voleva, nonostante le sue insistenze, ripubblicare. Manganelli era troppo elitario anche per la più elitaria delle industrie culturali. Di conseguenza, era destinato a sconfitte inevitabili, cui se ne aggiungevano altre di carattere più personale. Un editor mi ha raccontato di quando lo accompagnò a ritirare un premio: un viaggio molto faticoso. Di contro, si cerchi in rete il video di Manganelli con Vittorio Gassman, e si veda come sapeva essere una persona di grande, semplice disponibilità».
Strano sia riuscito ad emergere in un mondo come quello del giornalismo, a imporre addirittura uno stile.
«Lavorava velocemente. Gli telefonavano dal giornale chiedendogli se potesse scrivere su una certa cosa e lui rispondeva: "Ci penso dieci minuti". Non diceva mai subito di sì. Poi, dopo mezz'ora, richiamava in redazione: "Potete venire a prendere il pezzo". Scriveva con la macchina a nastro pagine già perfette. Aveva la medesima elaborazione quando parlava, la stessa eleganza. Parlava come scriveva. In lui non c'era il benché minimo manierismo. Nei suoi editoriali, si occupava poco di temi politici, più di quelli etici, su cui sapeva essere sferzante. Non era un disimpegnato. Pochi si ricordano che durante la Seconda guerra mondiale partecipò alla Resistenza».
Non bastasse, fu un viaggiatore assoluto, dopo anni di sedentarietà. Viaggiò da privilegiato, scegliendo le mete: ne ricavò reportage come quelli raccolti in L'isola pianeta e altri Settentrioni e Cina e altri Orienti. In una parola, inaggirabili.
«Lo credo anch'io. Il fatto che passasse per un viaggiatore quasi disadattato dipendeva più dalla sua quota di nevrosi che dalla solitudine. Ha capito la Scandinavia o l'Africa, quello che significano per l'uomo europeo, come nessun altro. Lo si deve al suo carattere: libero, mai asservito. Cera una sua piccola verità nel fingersi goffo: verità trascurabile. Le sue paure erano rivolte all'interno, figlie di un mondo interiore dissestato, in virtù del quale vedeva benissimo intorno a sé, trapassando le apparenze».
Che peso aveva la letteratura nella vostra amicizia?
«Le nostre conversazioni erano quanto di più quotidiano si possa immaginare. Certo, mi regalò dei libri, compreso Sconclusione, che aveva scritto prima che ci conoscessimo».
Titolo mitologico.
«Già, un Rizzoli totalmente fuori commercio. Alle aste su internet so che viene battuto ad alti prezzi. Si dice che i possessori delle pochissime copie rimaste, lo scrivano sul biglietto da visita: "Tal dei Tali. Possessore di Sconclusione"».
È vero che lei riuscì a portare al mare il Manga?
«Sì. All'epoca amavo quell'orizzonte, lui l'aveva in uggia, naturalmente. Ricordo mangiammo telline. Il critico Andrea Cortellessa ci ha scherzato su: "Una bella impresa portare al mare Manganelli...". Ero il suo passaporto per la vita di tutti i giorni, la parte concreta della sua agenda. Nel libro racconto di quando riuscii a convincerlo che aveva bisogno di un paio di scarpe "degne di un ossimoro" e andammo da un calzolaio di via Francesco Crispi. Riuscivo a "bucare" persino la sua portinaia».
Bisognerebbe scrivere un saggio, sulle portinaie dei grandi artisti.
«Venderebbe. Manganelli era "protetto" da un cerbero di donna nello stile della scherana di Fellini, che aveva lo studio in Corso Italia. Quest'ultima era forse peggio di quella di Giorgio. Capelli rossi dritti, sembrava uscita da una farsa di Dario Fo, aveva una memoria visiva di ferro, nessuno poteva arrivare al Maestro. Fellini, che stava al piano rialzato, lamentava dalla finestra: "Lasciala passareee...". Dopo un po', la scherana non ti fermava più. Anche Gadda ne aveva una così, ne parla Arbasino da qualche parte. Quella di Giorgio, era più malleabile».
Manganelli le dava suggerimenti professionali?
«Pochi. Una volta gli dissi che volevo scrivere un libro intitolato Non dimenticar. Mi chiese: non metti la "e" finale? No, risposi, perché Non dimenticare ha il sapore di un ordine morale, di un comandamento: non dimenticare l'Olocausto, non dimenticare i genitori. Senza la "e" suona, invece, come un invito sentimentale: Non dimenticar... C'è una musica diversa. Lui sorrise: "vedi che ogni tanto ci capisci?"».
Un giocoliere. Un disperato giocoliere.
«Forse, ma quand'era con gli altri pensava più alle loro tribolazioni che alle sue. Manganelli era soccorrevole. Era accogliente. Usando la parola sbagliata: era un uomo forte. La parola "forte", per lui, è semplicemente rozza. Per dirla in modo diverso: uno che dà, innanzitutto, è uno che ha».