Quelle «Favolacce» di una drammatica estate romana

«A Tiziana Soudani, ora scia luminosa» Con questa scritta si concludono i titoli di coda di Favolacce, opera seconda dei fratelli D’Innocenzo e co-produzione italo-svizzera tramite la partecipazione di Amka Films e della RSI. È l’ultimo lungometraggio a cui ha lavorato la produttrice ticinese Tiziana Soudani, storica collaboratrice di molti registi italiani che è venuta a mancare il 25 gennaio, e alla proiezione stampa berlinese del film la dedica finale è stata accolta da applausi. I D’Innocenzo, che avevano già partecipato alla Berlinale nel 2018, nella sezione Panorama, con l’esordio La terra dell’abbastanza, questa volta sono stati inseriti nel concorso principale, vetrina ideale per un’opera coraggiosa e travolgente che rielabora in modo sorprendente le convenzioni del romanzo di formazione.
Un diario incompleto
Siamo nella periferia di Roma, nel bel mezzo dell’estate. Una voce narrante (Max Tortora, già presente nel film precedente dei due registi) legge estratti di un diario incompleto, appartenente a una bambina che, come tutti i coetanei o quasi della sua zona, si appresta a vivere le vacanze con allegria e spensieratezza. Ma come suggerisce il titolo, conciso e al contempo ricchissimo, queste non sono vere e proprie favole, e i classici episodi di villeggiatura vanno incontro a una rilettura a tratti stramba, a tratti votata al tragico. La fotografia rovente di Paolo Carnera mantiene in bilico tra reale e irreale un racconto molto coinvolgente, quasi sempre ad altezza bambino, con il supporto prezioso di attori adulti come Elio Germano (già a Berlino con Volevo nascondermi di Giorgio Diritti), vulnerabile e strepitoso nei panni di Bruno, padre di due dei personaggi principali, Dennis e Alessia. Un magnifico, ruvido racconto corale, a più voci nonostante il singolo narratore, e più ambizioso rispetto alla storia abbastanza contenuta dell’esordio dei due cineasti.
Nessuna vendetta
E proprio su quest’aspetto si sono soffermati in conferenza stampa i fratelli D’Innocenzo, parlando dell’evoluzione del loro percorso cinematografico: «La terra dell’abbastanza è stato il nostro biglietto da visita, l’avevamo proposto alla Rai e alla Pepito Films [due delle case di produzione di Favolacce, n.d.r.], ma a loro non interessava un film di genere, tendente al noir», ha spiegato Damiano D’Innocenzo. «L’abbiamo fatto per poter fare questo. Era una sceneggiatura che avevamo scritto già da tempo, e non volevamo aspettare perché stiamo invecchiando anche noi e col passare del tempo avremmo perso l’equilibrio, l’imparzialità, per parlare sia dei bambini che degli adulti». Il film può essere letto come una vendetta della generazione giovane nei confronti delle pressioni che subiscono da parte del mondo adulto? «No, io non lo vedo come una vendetta, perché questi bambini hanno una rabbia più repressa, è un retropensiero», ha detto Fabio D’Innocenzo. «Sono molto innocenti, e sebbene abbiano visto certe cose non c’è il desiderio di far soffrire i genitori».
La periferia romana mostrata nel film rispecchia la realtà che conoscono i due cineasti? La risposta di Fabio D’Innocenzo: «Siamo cresciuti in periferia, ma il film non parla di questo. La questione geografica non ci interessava, è un racconto universale.
Storia di periferia
A livello di scenografia assomiglia più a una periferia americana, più aperta rispetto a quella italiana». Qualcuno paragona il film al cinema di Ettore Scola, e la reazione di Damiano D’Innocenzo è stata a dir poco entusiasta: «È un complimento meraviglioso. Noi siamo influenzati da tutti, anche da scrittori e musicisti. Siamo come delle spugne, rubiamo dove possiamo». Quanto al cambio di genere da un film all’altro, gli autori assicurano che sarà così anche per i prossimi progetti: «Se avremo i soldi per fare un terzo film, sarà di un altro genere, l’idea è di continuare a variare fino alla fine». Una parentesi più leggera, sulla presenza dei pasti in molte sequenze del film: una cosa tipicamente italiana? «Sì, e poi noi abbiamo un debole per le inquadrature del cibo, anche quando sono disgustose».