Robert Redford, l’impegno dell’artista

Un grande attore che non ha voluto mai essere star, divo. Un uomo impegnato, che ha creduto in ciò che ha fatto, soprattutto al di là dei ruoli interpretati. Che attraverso le sue scelte, ha aiutato l’America a capire qualcosa in più di sé stessa. Robert Redford è stato questo e molto di più. È stato un volto, è stato molti personaggi. Tanti che, infatti, per celebrarlo ogni testata ha titolato su un film diverso. C’è chi ha puntato su «La stangata» (George Roy Hill, 1973) e chi su «Il grande Gatsby» (Jack Clayton, 1974), chi su «Tutti gli uomini del presidente» (Alan J. Pakula, 1976) e chi su «La mia Africa» (Sydney Pollack, 1985). Ma abbiamo visto anche altri titoli che citavano «I tre giorni del Condor» (ancora Pollack, 1975), «A piedi nudi nel parco» (Gene Saks, 1967), «Come eravamo» (Pollack, ancora lui, 1973), e anche «Butch Cassidy» (Hill, 1969), in cui interpretò Sundance Kid, non proprio un ruolo come gli altri, come si vedrà.
Potremmo proseguire, fino alla fine di questo articolo e poi oltre. Ha sbagliato pochissimi film, da attore e poi da regista. Anche se in fin dei conti è stato poco premiato. Una sola candidatura agli Oscar quale miglior attore protagonista (per «La stangata», ma quell’anno, nonostante i premi al film e a Hill, vinse Jack Lemmon con «Salvate la tigre»), e poi la statuetta come miglior regista alla sua prima prova con «Gente comune» (1980) e alla carriera nel 2002. Quando il meglio era già passato. Ma quando ancora, qualche colpo in canna, Redford sarebbe comunque riuscito a spararlo, sia come attore - «Spy Game» (Tony Scott, 2001), «All Is Lost» (J.C. Chandor, 2013), e l’ultimo «Old Man & the Gun» (David Lowery, 2018) - sia soprattutto come regista.
Sì, perché ha ancora diretto il politico «Leoni per agnelli» nel 2007 e «La regola del silenzio» nel 2012. Fino in fondo ha detto la sua. Lo ha fatto allontanandosi da Hollywood, pur senza rinnegarla. «Ho semplicemente scelto di non vivere qui perché preferisco altri posti», ha detto. «Vivo nello Utah. Ho scelto quel posto per l’anima. È in montagna, e scio. E vivo a New York perché semplicemente mi piace: è davvero sporca, dura, incasinata. Non può essere qualcosa che non è». E lui neppure. Lo si capisce scorrendo la filmografia. Ogni scelta appare, anche con il senno di poi, pienamente consapevole. E questo nonostante gli inizi da «bello» - venduto così dagli Studios, dopo tanta gavetta, anche televisiva e teatrale -, e nonostante quella leggerezza che sapeva dare ai propri ruoli. Perché Redford ha saputo essere impegnato, intenso, ironico, persino buffo. Si è perso nel mare e nel west, si è messo contro i poteri forti e, in certi casi, l’America tutta. E poi ha riportato quel suo stesso spirito di attore nel suo festival, il Sundance, nel lontano Utah. Dove è morto, questa mattina, all’età di 89 anni. Classe 1936, Redford nacque in California con chiare origini britanniche e irlandesi. È stato in effetti uno degli attori americani più «europei», nelle scelte più che nello stile. Rifiutava però le etichette, anche quella di attivista, nonostante il suo cinema fosse impregnato di ideali politici e sociali. «Il mio modo di vedere le cose mi spingeva a vedere cosa non andava.
Riuscivo a vedere cosa poteva essere migliorato. Ho sviluppato una visione un po’ cupa della vita, guardando il mio Paese», aveva detto in un’intervista all’Hollywood Reporter anni fa. Anni prima, alla Festa del Cinema di Roma, con Mariella Delfanti a coprire l’evento per il Corriere del Ticino - in quell’occasione presentava proprio «Leoni per agnelli» -, spiegava: «Il mio interesse per la politica deriva dal mio essere cittadino e artista. Ma se vogliamo dire qualcosa di serio e di importante con un film, lo si deve fare in una forma di intrattenimento. Il mio Paese non apprezza i film a scopo puramente propagandistico, né li apprezzo io. Io voglio raccontare buone storie, con buoni personaggi, in conflitto gli uni con gli altri e magari cercare di affrontare argomenti più vasti. Il film non ha il potere di cambiare il corso della politica, ma ha la capacità di innestare la spina del dialogo tra le persone. E quello che riesce a comunicare, con la maggior parte degli artisti, è la speranza». Figlio del cinema degli anni Settanta, cinema di riflessioni in forma di domande, disse anche: «Un film non deve fare propaganda, deve aiutare a esprimere la complessità della situazione, ed è quello che cerco di fare. Per questo non fornisco risposte, ma semplicemente pongo domande. Per aiutare la gente a riflettere».

