Romeo Castellucci: «Il linguaggio è un vero campo di battaglia»

Strumento ambiguo, portatore di pensiero sublime ma anche di conflitto, il linguaggio è una delle risorse più potenti e pericolose dell’essere umano. Domenica, alle ore 18, ne parleranno sui canali virtuali del LAC nell’ambito della rassegna «Arti Liberali» un professore universitario inglese, Nicholas Ridout, e uno dei nomi di punta della scena europea, Romeo Castellucci. A lui abbiamo chiesto di riflettere con noi sulla valenza della parola, sulla scena ma non solo.
Domenica a Lugano si parlerà di linguaggio come strumento del pensiero umano. Cosa rappresenta per lei, come regista di teatro?
«Il linguaggio è il luogo dove gli esseri umani si incontrano, la nostra casa comune. Ma nel teatro, la parola non è solo uno strumento. È un luogo di confronto serrato, un vero e proprio campo di battaglia. Fin dalle grandi tragedie greche, parlare è una prova, un’esperienza esistenziale. Paradigmatico il caso di Edipo: l’eroe prova a prendere la parola davanti alla comunità, ma ottiene l’effetto opposto a quello desiderato. Più il re Edipo parla, più si isola e si affaccia all’abisso. La parola nell’eredità greca produce silenzio, è fatale. Su questo paradosso, sulla coscienza del fondo abissale della parola, si basa l’esperienza del linguaggio sulla scena».

E oggi? In quale linguaggio siamo immersi?
«Ho l’impressione che oggi la questione della comunicazione sia, per metafora, un letto di malattia. Siamo malati di comunicazione: siamo immersi in una parola circolare, autoefficace, in una sorta di rumore bianco. Ma alla fine della giornata, quali parole ti hanno toccato, quali sono riuscite a nominare il tuo nome? Poche, nessuna. Immagino spesso il linguaggio come un panorama che cambia, e oggi ho l’impressione che intorno ci sia un deserto, un deserto di quantità indistinta, senza differenza».
La politica quale ruolo ha in tutto questo?
«La nozione stessa di potere va ripensata: oggi non contano soltanto Finanza, Stato, Chiesa, ma molto di più coloro che hanno potere sulle leve del linguaggio. La retorica politica, così come la pubblicità, ha sposato completamente la dimensione dello spettacolo. Andrebbe riletto un libro profetico, La società dello spettacolo di Guy Debord, che nel 1967 ha fatto un ritratto perfetto della nostra epoca. Naturalmente il potere utilizza il linguaggio per veicolare i suoi messaggi, anche quelli più atroci. Ma la forma può essere un inganno, un’illusione. Cosa accade se il Presidente degli Stati Uniti manda un messaggio social ogni mezz’ora? Accade che un contadino, mentre sta arando con il trattore il suo campo in Virginia, sente il Presidente parlare proprio a lui. C’è bisogno di molti strumenti per smascherare questo meccanismo lugubre ed efficace, che utilizza parole scabrosamente primitive. Nella video-installazione che doveva essere presentata al LAC proprio in questi giorni, Terzo Reich, rifletto se questo: sull’uso violento e totalitario del linguaggio, che viene adoperato come un maglio per confondere e dividere la coscienza delle persone».

Il teatro è un possibile antidoto?
«Assolutamente si. Il teatro è un interruttore: stacca, interrompe il flusso. Lo è sempre stato, in tutti i tempi. Samuel Beckett, con le sue drammaturgie dell’assurdo, è riuscito a creare con il linguaggio incredibili corto-circuiti che ci smuovono ancora oggi. La scena resta uno dei pochi ambiti in cui riusciamo a risvegliare la nostra coscienza, parola cruciale per lo spettatore greco. Stare a teatro è come guardare ciò che ci sta intorno ogni giorno, ma dopo aver fatto un passo indietro. Nelle nostre vite siamo spettatori inconsapevoli in stato permanente, ventiquattr’ore al giorno. Nella sala teatrale, invece, questo ruolo risuona in modo completamente diverso: il teatro sa ferire come un pungiglione, penetrare nella pelle del pubblico e rilasciare un po’ di veleno. Poi quella goccia farà effetto nel tempo, anche dopo la fine dello spettacolo, anche in altre epoche. Il veleno di Beckett o di Shakespeare è ancora efficace! Il teatro naturalmente è anche spettacolo, divertimento, non è un’esperienza mistica. Ma è una forma estetica capace di porre domande, problemi. Gli artisti sono problematizzatori, diceva Heidegger: se non viene posto un problema, non c’è arte. C’è decorazione, illustrazione, comunicazione, ma non un’esperienza che lascia il segno».


Quale spazio resta dunque per il teatro durante la pandemia?
«In questo momento non ci sono alternative per le arti dal vivo, purtroppo. Personalmente, non credo al teatro online. Nella dimensione virtuale si può forse fare documentazione, ma non teatro che è un’arte carnale e che si alimenta alla fiamma della presenza reciproca. Certamente questo momento storico – che ricorderemo come una guerra mondiale – cambierà radicalmente i nostri paradigmi del guardare. Bisognerà riflettere sulla vera necessità di andare a teatro, non proporlo come una coercizione. Ma una cosa è certa: il teatro non scomparirà mai, è invincibile, gravido di futuro, non ha nulla a che fare con il passato. Questo è il momento di sospensione in cui si tende l’arco. Presto arriverà una nuova dimensione in cui l’urgenza degli artisti si manifesterà con forza e nitore».