Personaggi

Sant’Agostino tra Prezzolini e Machiavelli

Cinquant’anni fa da Lugano il noto giornalista accostò l’ipponense al fiorentino
Niccolò Machiavelli nacque a Firenze 550 anni fa.
Léon Bertoletti
14.05.2019 06:00

Quello che ha detto, quello che non ha detto, quello che gli hanno fatto dire: tutto ha contribuito all’immortalità di Machiavelli. Un sostantivo («machiavellismo») e un aggettivo («machiavellico») perfino, a evocare trame e doppiezze, astuzie diaboliche e slealtà, subdole scaltrezze e intrighi da pochi o zero scrupoli, simulazioni e dissimulazioni. Messer Niccolò veniva alla luce a Firenze il 3 maggio 1469. A cinque secoli e mezzo ancora si dibatte su questa figura di segretario, cancelliere; sulla bontà, l’efficacia delle sue parole e dei suggerimenti; sulla validità delle interpretazioni postume. «Come mai, dopo cinquecent’anni, il nome di questo scrittore può suscitar tanta attenzione? Qual’altro degli autori italiani - Dante eccettuato e forse Petrarca - gode d’una pari fama fuori del proprio Paese? O forse ci dobbiam domandare piuttosto: perché Machiavelli è diventato più che il nome di uno scrittore, quello d’un mito?». Erano interrogativi che già frullavano in testa a Giuseppe Prezzolini nei primi giorni ticinesi.

Uditorio americano
Stabilitosi a Lugano nel 1968, l’anno seguente si trovò ad approntare un discorso proprio per la ricorrenza machiavelliana del quinto centenario della nascita. Lo chiamò Sant’Agostino e Machiavelli vanno d’accordo, fece stendere il materiale in inglese al professore Henry Paolucci. Il brano venne letto alla St. John’s University di Brooklyn e pubblicato, nel 1970, sulla Review of National Literature. Infine fu inserito, come capitolo ottavo, in un volumetto del 1971, Cristo e/o Machiavelli. Quanta strada per una lezioncina. La tesi, originale in parte, è strepitosa: perché secondo Prezzolini, nonostante il millennio che li separa, il vescovo africano e il laico italiano, l’ipponense e il fiorentino, sarebbero affratellati dal giudizio negativo sull’essere umano, sul suo agire nella terra e nella storia. Riguardio il peccato originale o l’ambizione, la volontà di conversione o di potenza, la dicotomia bene-male o successo-insuccesso, i comandamenti divini o le leggi statali, rileva poco. Va bene: rendere il santo un precursore del profano, fare del teologo un anticipatore dello stratega sembra eccesso dialettico, azzardo, stramberia. Né risultano così evidenti le affinità elettive, le corrispondenze di amorosi sensi, le comunanze tra il pellegrino dell’assoluto e il profeta del relativo, tra chi viveva percependosi straniero (in quanto residente di una patria evangelica) e chi misurava la propria cittadinanza dispensando proposte per migliorarla, tra chi cercava le chiavi del cielo e chi sperimentava quelle della terra. Tuttavia, a scorrere Prezzolini, si finisce per credergli. Per guardare all’apologeta cristiano e al predicatore civile, al padre della chiesa e al genitore della politica, come a una strana coppia di alchimisti: di una fede, in ogni caso, e di una ragione. Si somigliano e si pigliano, il convertito devoto e lo «scienziato del cuore umano», il maestro delle coscienze e il «moralista realistico», il direttore delle anime e il consigliere dei corpi, nella comune idea di un pessimismo (religioso o naturalistico) invocante una forma di organizzazione, di governo, che ha da essere perfetta: quaggiù o lassù, nell’aldilà o nell’aldiqua, città di Dio o città degli uomini, come Gerusalemme o Roma, oppure Atene o Sparta. Se muovendo dalla schifosaggine umana uno innalza l’Eterno e l’altro l’antagonista, l’elemento demoniaco; se uno si concentra sul Re oltremondano e l’altro approccia il Principe di questo mondo, non si guasta il medesimo tentativo verso una disposizione strutturale armonica, equilibrata. E, per conseguirla, l’identica necessità della lotta, l’inevitabilità del combattimento spirituale e fisico. Leone e volpe camminano insieme. L’eternità di Machiavelli, per Prezzolini, si deve alla «natura del suo messaggio, alle volte esposto esplicitamente, spesso appena suggerito, in un modo oscuro, però sempre coerentemente mantenuto dall’empito del suo pensiero nelle sue poesie come nelle sue prose, nei suoi trattati dottrinari come nelle sue lettere familiari, e persin negli aneddoti e nelle leggende della sua vita privata». Certo, «mentre viveva, quel messaggio passò quasi inosservato. I censori cattolici non vi trovaron nulla da ridire. I suoi amici intimi – per esempio il colto Francesco Vettori – evidentemente consideravano ovvie le sue osservazioni sulla natura umana». Guicciardini soltanto «si accorse della serietà di quel messaggio, e si propose di confutarlo». La dottrina suonava dirompente: «Un ordine sociale fra gli uomini non può essere mantenuto senza ricorrere a una condotta che è condannata dalla morale cristiana. O, in altre parole: dal punto di vista cristiano, l’arte dell’Uomo di Stato è sempre immorale, è sempre anticristiana». Ma nel vedere l’uomo malvagio ed egoista, prevaricatore e dominatore, traditore e quindi peccatore, «l’ateo Machiavelli si trova in pieno accordo con il grande santo africano, Agostino, vescovo di Ippona. Cioè, l’elemento machiavellico, che è incompatibile con il cristianesimo ottimista, è invece compatibilissimo con la grande tradizione pessimistica del cristianesimo». Infatti «l’ottimismo cristiano, il cristianesimo umanitario, il cattolicismo alla moda d’oggi» sostengono «che il regno del Cristo è, o almeno dovrebbe essere, di questo mondo, con uno stipendio annuo e pensione garantiti, senza dover combattere, come fecero sempre gli Ebrei, i Romani, e i Francesi, e i Cinesi, e gli Arabi per i loro regni terreni. Machiavelli, come dissi, è in contrasto con l’ottimismo cristiano. Ma bisogna notare che, molto tempo prima di lui, quel punto di vista fu assolutamente respinto da sant’Agostino, la cui Città di Dio è semplicemente un commento del detto di Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo»». Tra pessimisti ci si intende, verrebbe da glossare, valutando anche la nota tempra di Prezzolini. Che amò confrontarsi spesso con Machiavelli.

Un confronto frequente
A partire dal 1925, quando mandò in libreria, per farle gustare ai suoi lettori, Le più belle pagine di Niccolò Machiavelli. Nel 1927 uscì la sua Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino, scritta durante «l’esilio volontario» parigino, tra «mezzogiorno e le tre nella Bibliotèque Nationale di Parigi e la mattina fra le cinque e le otto in casa». Una «vita romanzata», d’accordo, con il neonato Machiavelli che nasce «con gli occhi aperti come Socrate, come Voltaire, come Galileo, come Papini, come Kant, come Figaro e come il Casorri che vende il latte a porta Nomentana e sprizza furbizia da ogni poro della pelle; e come chi scrive questo libro». Una «favola esopiana», pure, per dare alle stampe sotto mentite spoglie «qualche cosa che non si poteva dire apertamente sotto il fascismo». Dunque «i fascisti fecero il muso per “Cara e porca Italia” ma la lasciaron pubblicare, e gli antifascisti se la presero calda per l’apologia del manganello, ma molti la lessero con profitto». Machiavelli anticristo è il titolo robusto di un altro saggio, del 1954. Mentre nel 1970 Prezzolini firma Il gheriglio di Machiavelli.