Anniversari

Sciascia e la palestra di libertà

Nel centenario della nascita rileggiamo la figura del grande intellettuale, saggista e romanziere italiano attraverso la lente originale delle sue assidue intersecazioni rossocrociate e della sua intensa, feconda e pluridecennale collaborazione con il «Corriere del Ticino»
Nasceva cento anni fa.
Léon Bertoletti
07.01.2021 06:00

Cose nostre. Se non suonasse irriverente nei confronti di un personaggio che a un certo punto fu definito «mafiologo», verrebbero da indicare così i fecondi legami che per almeno un trentennio s’intrecciarono tra Leonardo Sciascia e la Svizzera. Meritano di essere retroilluminati, ora che si celebra con un fiorire di iniziative il centenario della nascita dell’intellettuale, anche perché bene si collocano nel suo percorso di formazione e maturazione.

Il siciliano Sciascia, che vede la luce l’8 gennaio 1921 nel borgo agrigentino di Racalmuto e spira il 20 novembre 1989 a Palermo, acquista i primi rudimenti di «svizzeritudine» nel 1957 quando a Lugano ottiene il premio Libera Stampa per due racconti, La zia d’America e Il Quarantotto, poi inseriti nella raccolta Gli zii di Sicilia. Come in una felice parentesi elvetica che si apre e si chiude in Ticino, sempre a Lugano è intervistato per l’ultima volta: alla Radio della Svizzera italiana, da Marco Horat, il 23 maggio 1988.

In mezzo ci sono un’infinità di trasferte per colloqui e convegni, interviste e viaggi di piacere, passeggiate specialmente zurighesi alla ricerca delle sue amate stampe o di libri antichi, ma anche per fare più prosaicamente incetta di cioccolata da riportare nell’isola natia. Inoltre ci sono, importantissimi, quasi vent’anni di collaborazione intensa e prolifica con il Corriere del Ticino. Lo scrittore, quel profondo indagatore dell’animo e dei costumi che la critica letteraria ha preteso di incasellare tra i provinciali e i fenomenologi, utilizza il nostro quotidiano come palestra di libertà. Vi pubblica il suo primo articolo il 12 settembre 1970, sulla pagina della Cultura, dopo una breve nota redazionale che comunica l’avvio della collaborazione. Da quel primo testo sulla bellezza o bruttezza delle nuove porte del duomo di Orvieto, una accesa polemica del momento, ne seguiranno moltissimi altri. Su Alessandro Manzoni, per esempio, e su Virginia Woolf. Su Boccaccio e Chagall. Su temi esistenziali come la verità e la morte. Inoltre sugli epigrafisti, i comici italiani in Francia, un nemico di Cagliostro, un romanzo di von Stroheim, il commissario De Vincenzi...

Da alcuni brani si alza ora, inevitabile, una nuvoletta di polvere dovuta alla fragilità delle occasioni, all’episodicità degli argomenti. La maggior parte mantiene, tuttavia, un nitore e una freschezza straordinarie, come accade con la sua idea di Lectura Dantis: emerge limpida in questo 2021 che segna i settecento anni dall’addio alla Terra del Sommo Poeta. Dunque le corrispondenze dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, la capacità dell’autore di romanzi come Il giorno della civetta e Todo modo, di saggi come La scomparsa di Majorana e L’affaire Moro, nel saper esprimere una parola chiara, definitiva, su innumerevoli questioni. Merito di tanto studio, approfondimento, ricerche archivistiche, scartabellamenti assortiti in aggiunta a una conoscenza onesta della natura umana e a un grande intuito.

A destra e a sinistra

«Ho continuato per la mia strada», scrive con sincerità Sciascia in una postilla alla silloge di racconti Il mare colore del vino, «senza guardare né a destra né a sinistra (e cioè guardando a destra e a sinistra), senza incertezze, senza dubbî, senza crisi (e cioè con molte incertezze, con molti dubbî, con profonde crisi)».

Il 13 ottobre 1973, la collaborazione con questo giornale abbandona la forma saltuaria e diviene una rubrica fissa mensile: Il torcoliere. La prima puntata è dedicata a Una cronaca stendhaliana. Si occuperà poi di Scaramuccia, «maschera della Commedia dell’Arte che furoreggiò alla corte di Luigi XIV», del romanzo incompiuto di Brancati Paolo il caldo, del ritorno in auge di Rubè di Giuseppe Antonio Borgese, riscoperto dopo una stagione di oblio e della Vucciria, il capolavoro pittorico del conterraneo Renato Guttuso raffigurante il celebre mercato palermitano.

Sia chiaro: al nesso tra Sciascia e la Confederazione, puntellato com’è di scambi di vedute e amicizie schiette, non manca il senso critico. «La Svizzera condivide la lingua e la cultura del popolo tedesco, del popolo francese e del popolo italiano e non ne condivide la storia. E questo nei migliori svizzeri che io conosco è un po’ un dramma» appunta il Siciliano. Ancora: «Nella misura in cui considero noi siciliani pazzi, considero gli svizzeri troppo poco pazzi, perché hanno quello che noi non abbiamo e hanno fatto quello che noi non abbiamo fatto. In effetti la Svizzera è una terra più povera della Sicilia, però ha raggiunto un grado di benessere che la Sicilia non si sognerà. Sì, la Svizzera è troppo poco pazza, forse anche troppo, il troppo si può usare anche in senso negativo». Non accidentalmente Troppo poco pazzi: Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera s’intitola un saggio che ha per curatore Renato Martinoni e per editore Leo S.Olschki. Il volume, con dvd allegato, illustra con larghezza di documenti proprio le intersezioni rossocrociate sciasciane. Confluenze nelle quali non risultano incolpevoli Giovanni Croci, giornalista palermitano che dopo aver preso casa sulle rive del Ceresio ed essere diventato redattore delle pagine culturali del Corriere del Ticino, si mette appunto in contatto con il compaesano; Guido Locarnini, direttore del CdT tra il 1969 e il 1982; Felice Filippini, responsabile dei programmi parlati della Radio della Svizzera italiana dal 1945 al 1969; Sergio Grandini, appassionato promotore di cultura.

Scandalosa oggettività

Un documentario apparecchiato per i cent’anni chiama Sciascia «scrittore alieno», tratteggiandone perciò l’anticonvenzionalità e l’anomalia, nel suo cocciuto senso civico e impegno civile, rispetto a una certa logica tricolore accomodante e remissiva. Nel confronto tra esperti si apprezza la partecipazione di Matteo Collura, autore di una primigenia biografia, Il maestro di Regalpetra. Sono spunti per commemorare un unico, un originale, nella sua scandalosa oggettività. All’inizio di Una storia semplice, che è in realtà un complicatissimo giallo di mafia e droga, Sciascia incide una frase di Dürrenmatt: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia». Assumendosi i propri meriti e le proprie responsabilità, nel 1965 a Palermo dichiara: «Indubbiamente la mafia è un problema nostro. Io ne ho fatto un’esemplificazione narrativa: fino a quel momento sulla mafia esistevano degli studi, studi molto interessanti, classici addirittura: esisteva una commedia di un autore siciliano che era un’apologia della mafia e nessuno che avesse messo l’accento su questo problema in un’opera narrativa di largo consumo. Io l’ho fatto». Per questo la sua è una voce che non si spegne, una voce viva.

La biografia

Coscienza critica di un’Italia incline agli accomodamenti e ai compromessi, Leonardo Sciascia nasce come scrittore nel 1950 con un libretto di storie quasi esopiane, Favole della dittatura. Pirandello e il pirandellismo (1953) s'intitola invece il saggio che ne rivela l’accurata lettura dell’opera pirandelliana. È però il volume Le parrocchie di Regalpetra (1956), dove l’autore traspone le sue esperienze a Racalmuto dapprima come impiegato del consorzio agrario e poi come maestro (dal 1949 al 1957) nelle scuole elementari, che manifesta il suo talento di narratore asciutto, preciso, capace di unire realismo meridionale e analisi sociologica.

Il 1961 segna l’uscita del capolavoro sciasciano Il giorno della civetta, romanzo «giallo» su una litania di delitti mafiosi che un ufficiale dei carabinieri tenta vanamente di sbrogliare assicurando i colpevoli alla giustizia: essenziale e disincantato, resta il suo libro più venduto e tradotto.

Di ambientazione storica sono Il Consiglio d’Egitto (1963), su una Palermo di tardo Settecento divisa tra tentativi assolutistici e moti giacobini, e Morte dell’inquisitore (1964), su un frate ribelle del Seicento siciliano condannato per eresia ma trasformato in icona del libero pensiero. L’onorevole è un testo teatrale del 1965 che in certo modo anticipa Tangentopoli, mentre A ciascuno il suo (1966) è un altro romanzo poliziesco di stampo mafioso. Recitazione della controversia liparitana (1969), nella sua trama settecentesca, si legge tuttavia come allusione al presente dei carri armati sovietici in Cecoslovacchia, alla Primavera di Praga (l’A.D. della dedica è infatti Alexander Dubĉek). Todo modo (1974) fa riferimento agli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, da praticare appunto todo modo «al fine di cercare e trovare la volontà divina», e disapprova il gesuitismo, il democristianismo.
Nel 1975, eletto come indipendente del Partito comunista italiano alle Comunali palermitane e presto dimissionario per comprovato disgusto, Sciascia pubblica l’inchiesta La scomparsa di Majorana sulla misteriosa fine del fisico catanese.

Anche L’affaire Moro (1978) è un’analisi approfondita: dell’evento che segna i cosiddetti «anni di piombo» e delle lettere che lo statista ostaggio delle Brigate Rosse inviò a familiari, colleghi, amici. Nel 1979 l’autore accetta una candidatura del Partito Radicale alle Politiche e diventa parlamentare. Il cavaliere e la morte (1988) è infine una toccante testimonianza della sua lotta contro il tumore al midollo osseo.