L'intervista

Le origini dell'universo svelate dal professor Aniello Mennella

A tu per tu con il professore di astronomia e astrofisica dell'Università di Milano: «Il progresso scientifico è enorme, adesso serve la spinta della teoria»
Una delle immagini catturate da Euclid. © EPA/RONALD WITTEK
Giona Carcano
23.11.2023 06:00

Grazie ai telescopi moderni possiamo risalire a un tempo remoto, in cui l’universo era appena nato. Esiste però un sipario oltre il quale l’occhio e le strumentazioni umane non possono andare: il fondo cosmico. Un «luogo» misterioso, in cui non esistevano né stelle né galassie, e che solleva domande. Con il professor Aniello Mennella cerchiamo di scoprire cos’è e che cosa ci racconta quella che viene definita la «prima luce».

Professor Mennella, le immagini che ci arrivano dai telescopi mostrano un universo pieno di luce, un’esplosione di colori e forme. Ma non è sempre stato così: in origine il cosmo era «opaco». Come facciamo a saperlo?
«Già nel 1929, dunque quasi un secolo fa, Edwin Hubble si accorse dell’apparente recessione delle galassie osservata in ogni direzione. L’astronomo concluse che non potevano essere le stesse galassie a muoversi, bensì che fosse l’universo a espandersi. Dando peraltro ragione alle equazioni della relatività generale di Albert Einstein. Partendo quindi da questa evidenza, dal processo di espansione, possiamo facilmente intuire che miliardi di anni fa l’universo era più compresso, quindi più denso. E seguendo le leggi della fisica, andando a ritroso nel tempo, possiamo sapere qual era lo stato della materia, fase dopo fase. E scopriamo un universo profondamente diverso».

Qual è la causa? Perché fra l’inizio di tutto, il Big Bang, e l’universo osservabile c’è un «muro» invalicabile, un limitre oltre il quale non ci è possibile osservare direttamente il passato dell’universo?
«Dopo circa tre minuti dal Big Bang l’universo aveva delle condizioni di temperatura così estreme per cui coesistevano particelle elementari come protoni, neutroni ed elettroni completamente disgregate, immerse in un mare di radiazioni. Era un plasma, una specie di brodo primordiale. E il fatto che la materia fosse disgregata faceva sì che le particelle di luce, i fotoni, non potessero propagarsi in linea retta ma rimbalzassero da un elettrone all’altro. Era quindi un universo opaco, come immerso in una fitta nebbia in cui la luce non poteva passare».

Che cosa ha reso «visibile» l’universo?
«Circa 380.000 anni dopo il Big Bang l’universo è diventato abbastanza freddo, attorno ai 3.000 gradi, da permettere agli elettroni di legarsi con i protoni e formare così gli atomi di idrogeno neutro. È in quel momento che la radiazione, disaccoppiandosi, ha iniziato a propagarsi in un’universo che nel frattempo da opaco è diventato trasparente, come lo osserviamo ai giorni nostri. Oggi possiamo misurare l’impronta lasciata da quella radiazione di fondo, che ci permette di ricostruire la composizione della materia nei primi istanti di vita dell’universo prima ancora della formazione delle stelle e delle galassie».

Il modo in cui è distribuita la materia 380.000 anni dopo il Big Bang non è casuale, ma la sua distribuzione statistica può essere prevista a partire da modelli fisici

Perché è importante conoscere com’era fatto il cosmo miliardi di anni fa?
«Il modo in cui è distribuita la materia 380.000 anni dopo il Big Bang non è casuale, ma la sua distribuzione statistica può essere prevista a partire da modelli fisici. Misurando l’immagine della radiazione di fondo, e confrontandola con ciò che prevedono i modelli teorici, possiamo capire quali sono gli ingredienti fondamentali dell’universo. È un po’ come prendere una torta e risalire alla ricetta misurandone ogni sua componente».

Individuata e misurata la radiazione di fondo che dà la struttura all’universo, sono sorte altre domande, altri punti sconosciuti. Pensiamo alla materia oscura e all’energia oscura. Che cosa sono?
«Non riusciamo a spiegarci quello che vediamo se non ammettiamo che esistono due elementi che ancora non conosciamo. La prima è la cosiddetta materia oscura, una forma di materia che non interagisce con la radiazione (quindi non si riesce a rilevare direttamente) ma risente della gravità, permettendo alla materia di collassare più rapidamente rispetto a uno scenario senza la materia oscura. L’altra grande domanda è l’energia oscura. Alla fine degli anni Novanta, grazie all’osservazione di alcune galassie molto lontane, gli astrofisici hanno notato non solo che l’universo si espande, ma che addirittura sta accelerando la sua espansione. Per descrivere questo fenomeno bisogna far ricorso a una forma di energia che non ha alcun corrispettivo nella fisica conosciuta. Anche in questo caso sappiamo che esiste, che produce degli effetti. Tuttavia non sappiamo identificarla».

Sappiamo guardare fin quasi alla nascita dell’universo. Ma che cosa sappiamo del suo futuro?
«Il modello sul quale la maggior parte degli scienziati concorda è quello che descrive l’energia oscura come una costante. Se questo fosse vero, il destino dell’universo sarebbe quello di un’espansione sempre più rapida, fino a oltrepassare la velocità della luce. Ciò significa che fra miliardi di anni, un eventuale osservatore vedrà nel cielo sempre meno oggetti. Vedrà ancora la Via Lattea, il nostro gruppo locale di galassie, ma non potrà più vedere – ad esempio – il fondo cosmico. Ed è un fatto antropologicamente affascinante: viviamo in un’epoca in cui è ancora possibile vedere da dove arriviamo. Un domani lontanissimo, se questa teoria sarà confermata, non potremo più farlo. Il tempo e lo spazio saranno così dilatati che l’origine di tutto sfuggirà».

Euclid, così come lo era Planck, è un telescopio prettamente cosmologico. Cerca quindi di studiare l’universo nella sua scala globale. L’osservazione di Euclid si concentra sulla fase successiva al limite invalicabile descritto in precedenza

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a numerose missioni spaziali che hanno lo scopo di permetterci una migliore comprensione dell’universo. Pensiamo ad esempio ai telescopi James Webb, messo in orbita due anni fa, e a Euclid, le cui prime immagini sono arrivate sulla terra a inizio novembre. Ci spiega l’importanza di queste missioni?
«Euclid, così come lo era Planck, è un telescopio prettamente cosmologico. Cerca quindi di studiare l’universo nella sua scala globale. L’osservazione di Euclid si concentra sulla fase successiva al limite invalicabile descritto in precedenza. Parliamo quindi dei primi miliardi di anni del cosmo. Esplora le profondità dell’universo per capire lo sviluppo nel tempo delle galassie. Infatti, vedendo come la materia è collassata su se stessa in un universo in espansione, è possibile misurare numerosi parametri. Come ad esempio il bilanciamento fra materia ed energia oscura. Euclid, che può catturare nel suo obiettivo enormi porzioni di cielo in una volta sola, ci dice come si è evoluta la struttura dell’universo. Inoltre, potrebbe darci delle risposte sulla materia oscura. Il James Webb, invece, è un telescopio infrarosso pensato per osservare oggetti singoli e per abbracciare una vasta gamma di temi scientifici, sia astrofisici (formazione di stelle e pianeti, dinamica delle galassie) che cosmologici (per esempio la misura della costante di Hubble)».

In pochi anni si sono fatti passi da gigante nel campo della tecnologia spaziale. Tanto che ci siamo addentrati fin nei primi istanti di vita dell’universo. Un domani sarà possibile osservare la scintilla, il Big Bang? O è pura fantascienza?
«Dipende che cosa si intende per osservare. L’individuazione con un’evidenza elettromagnetica è impossibile, perché l’immagine più lontana può arrivare dal momento del disaccoppiamento, la prima luce appunto. In realtà ci sono altre possibilità di ‘‘vedere’’. Per esempio, se si riuscisse a rilevare il fondo cosmico di neutrini potremmo “vedere” l’universo quando aveva solo un secondo di vita. Per andare ancora più indietro nel tempo attualmente gli sforzi sono concentrati nella rilevazione del fondo di onde gravitazionali primordiali, previsto dalla teoria più accreditata, quella della cosiddetta “inflazione”. Queste onde avrebbero lasciato la loro debole “firma” nel fondo cosmico di microonde, ma questo segnale non è ancora stato osservato. Una volta misurato sarebbe un modo indiretto di osservare l’universo molto vicino all’origine del tutto, il Big Bang».

La rinnovata spinta all’esplorazione spaziale ci permette di vivere un’epoca entusiasmante, tanto sembra di essere vicini a una scoperta epocale in campo astronomico. Concorda?
«Sono anni in cui l’osservazione dello spazio evolve con una rapidità pazzesca. Negli ultimi vent’anni il progresso tecnologico è stato tale per cui molte frontiere sono state abbattute. Ma se da un lato il progresso scientifico riguardante l’osservazione è stato sensazionale, dall’altro la teoria si trova davanti sfide molto difficili da superare. Ad oggi il modello teorico standard si basa sulla relatività generale di Einstein modificata per poter includere gli effetti della materia oscura e dell’energia oscura. D’altra parte queste componenti non hanno ancora una spiegazione teorica coerente con i modelli di fisica fondamentale, e questo limita la nostra comprensione profonda dell’universo. Qualche tempo fa Paul Steinhardt, uno dei padri della teoria dell’inflazione, mi disse che, per quanto possa sembrare strano, viviamo in un’epoca particolare in cui sono gli scienziati sperimentali e le osservazioni a guidare i teorici. Per dirla con le parole di un altro grande cosmologo, Rocky Kolb, siamo un po’ tutti ciechi osservatori del cielo».