Se il talismano finisce nel corpo di un bugiardo

Immaginatevi che, per puro caso, nel laboratorio di un museo archeologico, salti fuori un antico cristallo con tanto di iscrizione in latino che ha il potere di esaudire il primo desiderio di chi lo tiene tra le mani. Immaginatevi ancora che il prezioso ma sconosciuto oggetto venga trafugato da un imbroglione senza scrupoli che punta tutto sulla propria presenza mediatica (ogni riferimento a Donald Trump è puramente casuale) e che costui si appropri dei poteri del talismano riuscendo così a esaudire i desideri dell’intero genere umano allo scopo di conquistare il dominio su tutto il pianeta. Risultato della subdola operazione: il caos generalizzato e una guerra nucleare senza esclusione di colpi tra USA e URSS, visto che la storia è ambientata in quel famigerato 1984 di orwelliana memoria. Ma c’è un ma: in quello stesso museo archeologico dove tutto ha origine lavora anche la diligente e schiva Diana Prince (alias Wonder Woman, alias Gal Gadot), la cui missione - già ben nota in precedenza ma ribadita con forza dal film di grande successo del 2017 - è quella di salvare il mondo. Una missione più complicata del previsto, poiché - almeno in un primo tempo - anche Diana cederà alla tentazione di vedere esaudito il suo desiderio più caro, ovvero riportare in vita (seppur nel corpo di un altro uomo) l’amato Steve Trevor, il pilota inglese morto anni prima a cui deve il suo trasferimento tra gli uomini.
Il lieto fine è assicurato
Insomma, il tutto ha l’aria di una favoletta in cui la presenza della supereroina della DC Comics è sufficiente ad assicurare il lieto fine. E di favoletta si tratta. Basti pensare che il film è uscito nelle sale americane proprio lo scorso 25 dicembre e che la scena finale (ambientazione natalizia e neve che cade copiosa in città) è quanto di più melenso si possa immaginare. Che poi una favoletta - la cui morale si può sintetizzare nel motto «Fidati solo di chi dice la verità» - debba durare ben due ore e mezza è del tutto opinabile. Così come è opinabile che tutte le scene debbano essere «illustrate» dalla musica di Hans Zimmer che mette lo spettatore sulla strada giusta sempre con qualche secondo d’anticipo rispetto a ciò che accade sullo schermo. L’ambientazione anni Ottanta è perfetta, ma la regista Patty Jenkins, in epoca #MeToo, non esita a inserire una scena in cui un ubriacone molestatore viene picchiato a sangue. Del resto ci si potrebbe chiedere cosa è meglio (o peggio): un brutto blockbuster diretto da una donna o da un uomo?