Se la retorica del racconto ci rende incapaci di guardare

Il dramma dell’Afghanistan, come tutti gli eventi drammatici ed emotivamente forti, sottolinea i vizi, i tic del mondo dell’informazione. Quando ci si trova di fronte a una grande storia mondiale entra in gioco il linguaggio emotivo. Le foto sono tutte iconiche, le storie sono tutte importanti. Le narrazioni sono tutte imprenscindibili. Alla fine i fatti restano sul fondo, e le parole diventano delle figurine semplici, che purtroppo sono sempre uguali. Il risultato è capire poco di quello che è successo e capire assai meno di quello che accade. La frase ricorrente è stata: in questi vent’anni, ma la storia dell’Asia centrale, del «Grande gioco» risale almeno all’Ottocento. E in pochi hanno spiegato che sono storie che si ripetono, e non in tragedia e poi in farsa (altra frase di un linguaggio ripetitivo assai sfruttata in questi giorni e in queste ore) ma si ripetono e basta.
Il punto vero è che non siamo più capaci di leggere senza le lenti della retorica e dei luoghi comuni. Senza quella tonalità emotiva che viene dai finali dei film di cassetta, dai romanzi commerciali, dalla musica che ci portiamo dietro. E tutto il mondo diventa un’emozione, un qualcosa di mai provato prima.
Tutto quello che accade sono storie e quasi mai è storia. La differenza non è da poco. La storia ci dice chi siamo stati e chi siamo. Le storie cercano negli eventi del mondo, un denominatore comune perché sia sempre riconoscibile, e nel mercato delle emozioni, aggiungerei vendibile. L’immagine dell’elicottero americano che evacua gli americani da Saigon, nel 1975, e quello che oggi, nel 2021, evacua sempre dal tetto gli americani da Kabul, è passata come un fatto ineludibile, qualcosa da raccontare per ore nei programmi di news. La stessa cosa si dica, con la suggestione della circolarità, ovvero una storia inizia e una storia si chiude. Ovvero con gli uomini che si lanciarono dalle due torri a New York l’11 settembre del 2001 preferendo morire in quel modo piuttosto che bruciati e l’afghano che si lancia nel vuoto dal carrello dell’aereo dopo aver cercato disperatamente di restare aggrappato per andarsene da Kabul. Sono due storie diverse, che paradossalmente nulla centrano una con l’altra. Nella semplificazione contemporanea tutto questo deve assumere un senso, deve farsi cinema, deve essere racconto.
Distanza necessaria
Il dolore del popolo afghano ci colpisce e ci sentiamo anche giustamente responsabili. Ma gli eventi della storia, per farsi film, devono attendere, essere elaborati, si deve generare una distanza dal presente che permetta di rileggere le cose in una maniera nuova e diversa. Solo che in questi anni la fretta, il cercare buone storie ha portato sullo schermo persone che erano vissute anche una sola manciata di anni prima. Uomini impersonati da attori truccati in una maniera tale da renderli i più somiglianti possibili al protagonista. Si pensi al Craxi o al Buscetta interpretati da Pier-francesco Favino. E questo perché i loro volti erano ancora troppo vicini al nostro presente. Oggi non siamo più capaci di usare un linguaggio che non sia sempre identico a se stesso, di raccontare storie che non abbiano tutta una serie di luoghi comuni che si ripetono ovunque: negli spot televisivi, nei film, nelle serie televisive, nei romanzi, e anche nel presente, nella piccola cronaca, come nella grande storia. Solo che a furia di utilizzare delle maschere retoriche la grande storia l’abbiamo proprio dimenticata. Però quando si insiste in modo ossesssivo su un concetto, su una pratica, su un sapere, significa che quel sapere o quel concetto è in crisi. Significa che ci sta scappando di mano. Raccontare e raccontarsi è il punto di partenza di qualsiasi felicità, è il motore di ogni successo. Non avere narrazioni vuol dire essere poveri di tutto. Anche coloro che fanno mestieri per nulla narrativi come gli economisti, come i matematici, subordinano tutto al racconto, alla narrazione. Così le vite reali diventano format, racconti, palinsesti, programmi. Ogni cosa che accade deve essere raccontata, spiegata, resa efficace dall’arte del racconto.
In questo modo le vere narrazioni si stanno sbriciolando, l’ossessione per la narrazione emotiva, per le storie, è figlia di questo smarrimento. E si frantumano conoscenze e verità. Quando il racconto si fa retorica del racconto, emozione del racconto, vuol dire che non si è più capaci di guardare. Tutti raccontano senza aver bisogno di vedere, e quando vedono, vedono soltanto quello che può essere utilizzato in forma di racconto e non quello che accade davvero. E questo è il vero problema dei nostri anni.