Sean Penn, padre bugiardo raccontato dalla figlia

«All’inizio non sapevo se in questo progetto avrei fatto solo il regista o solo l’attore, o entrambe le cose. I produttori presero così contatto con Alejandro Gonzalez Inarritu nel caso avessi deciso di fare solo l’attore. Mi sono però quasi subito deciso per la regia, ma un mese e mezzo prima dell’inizio delle riprese non sapevo ancora chi sarebbe stato il protagonista. Nei miei film precedenti avevo sempre evitato di cumulare questi due ruoli molto impegnativi e diversi tra loro. Così ho inviato il copione a Matt Damon che è stato così gentile da leggerlo subito. Quando mi ha richiamato non mi ha detto se sarebbe stato disposto a girare il film ma mi ha semplicemente detto: “Non sarai mica così stupido da voler rinunciare a interpretare questo incredibile personaggio di padre al fianco dei tuoi figli?!” E così mi ha convinto». In questo modo Sean Penn ha raccontato la genesi del suo nuovo film Flag Day, presentato in concorso durante il ricco weekend del Festival di Cannes. Il sessantenne attore e regista americano appare infatti sullo schermo al fianco della figlia Dylan (30 anni) e del figlio Hopper (28), entrambi nati dalla relazione con l’attrice Robin Wright. È la primogenita ad essere al centro di Flag Day: è lei a interpretare il personaggio di Jennifer Vogel che, dopo la tragica e spettacolare morte del padre John (rapinatore di banche e falsario), cerca di ricostruirne la storia ma soprattutto di descrivere il controverso e burrascoso rapporto avuto con lui. Il tutto è ispirato a una storia vera e al libro di successo della vera Jennifer che oggi fa la giornalista. Penn gigioneggia un po’ troppo nei panni di questo bugiardo inveterato ma amante della libertà e di Chopin. Dal punto di vista registico riannoda i fili con la felice esperienza di Into the Wild - Nelle terre selvagge (2007) facendo uso di tutta una serie di rock ballad che contribuiscono alla narrazione, mentre dal punto di vista delle immagini la scelta della pellicola 16 mm permette al direttore della fotografia Daniel Moder di ricostruire l’atmosfera degli anni Settanta, il periodo centrale in cui è ambientato il film. Fin qui nulla di nuovo quindi, ma la vera sorpresa di Flag Day si chiama Dylan Penn, il cui volto è lo specchio delle contrastanti emozioni che prova nei confronti del genitore. Un’attrice di cui sentiremo senz’altro ancora parlare, anche senza l’ala protettiva del buon Sean.
Belle novità dal Nord
Al di là della Palma d’oro andata nel 2017 a The Square del regista svedese Ruben Östlund, negli ultimi tempi il Festival di Cannes non ha offerto molto spazio al cinema del Nord
Europa che quest’anno torna però in concorso con due opere molto interessanti. La prima, Julie (en 12 chapitres) è diretta dal norvegese Joachim Trier e racconta quattro anni della vita di una trentenne di Oslo, irrequieta e dinamica, che sa cosa non vuole dalla propria esistenza ma non ciò che vuole veramente. Tra sogni e realtà, relazioni di coppia e di famiglia, paura di invecchiare senza aver approfittato al meglio della vita, Julie (interpreta dalla radiosa Renate Reinsive) attraversa una serie di alti e bassi e ciò permette a Trier di regalarci alcuni bei momenti di puro cinema. Come la sequenza del sogno durante la quale la donna attraversa di corsa tutta la città per andare a raggiungere il suo nuovo amante mentre tutto attorno a lei (persone, veicoli, animali) è immobile come se il tempo si fosse fermato. Riuscito e accattivante, pur su un registro completamente diverso, anche il nuovo lungometraggio del regista finlandese Juho Kuosmanen Compartimento n. 6 che, come si intuisce dal titolo, si svolge quasi interamente su un treno che, in pieno inverno, unisce Mosca al porto artico di Murmansk. A bordo, una giovane archeologa finlandese, in fuga da un rapporto di coppia omosessuale nel quale non si ritrova più, incontra un giovane operaio russo con il quale a poco a poco fraternizzerà. Il viaggio pare senza fine, è costellato di incontri ma serve a entrambi per conoscere un mondo ignoto. Fino alla scena-clou quando, in riva al mare in tempesta, i due vanno alla ricerca dei misteriosi «petroglifi» che hanno spinto la donna fin lì. Tracce invisibili di un passato insignificante che entrambi si sono ormai lasciati alle spalle.
Verhoeven da dimenticare
Il concorso di Cannes 2021 non è però tutto rose e fiori e i film da dimenticare non mancano. Primo fra tutti Benedetta del veterano Paul Verhoeven, sorta di Basic Instinct saffico di ambientazione rinascimentale basato su studi seri ma portato sullo schermo con banale superficialità. Un brutto colpo per un regista che stava per trasformarsi in cult. Poco riuscito anche La fracture della francese Catherine Corsini, una notte movimentata in un pronto soccorso parigino durante una manifestazione dei gilets jaunes in cui l’unica a brillare è la divertente ma intelligente Valeria Bruni Tedeschi.