Sei lezioni per tre giganti

È un trittico di autori (Leopardi, Montale, Giorgio Orelli) quello che Gilberto Lonardi, a lungo professore di letteratura all’Università di Verona, avvicina in questo libro voluto con tenacia da Aurelio Sargenti che ne dialoga in limine con l’Autore. La maggior parte dei testi nascono infatti come conferenze che Lonardi ha tenuto nei nostri licei e, in particolare, in quello di Lugano 2 a lungo diretto da Sargenti. Il tono affabile e appassionato di queste pagine è dunque certo dovuto all’occasione, ma si coniuga benissimo con la lunga fedeltà di Lonardi ai tre autori e, nel caso di Orelli, con una lunga e sperimentata amicizia.
Per ognuno dei tre poeti, Lonardi privilegia alcune poesie risalendo poi, però – come i grandi lettori sanno fare – ai loro rispettivi e individualissimi mondi: mondi, ovviamente prima di tutto, immaginali e fantasmatici. I tre percorsi sono diversi, ma il metodo appare presto uno e privilegia il rapporto di tutti con la tradizione. Per Leopardi, in particolare, con l’Antico; per Montale e Orelli con le voci che in poesia hanno contato per loro fra le quali una, comune e grande, è quella di Dante. Eccolo qui, dunque, fissato in una frase, il metodo di Lonardi, la «via» – come la chiamavano i medici antichi – alla poesia: «è classico [...] chi non cessa di ricordare le ragioni più profonde della tradizione» in cui si inserisce. Già, ma come?
Da anni Lonardi lavora alla speciale relazione che, fin da giovane, Leopardi ha con i classici greci e latini sottolineando l’impressionante capacità del poeta di fare suo e rinnovare quell’immenso bagaglio. Ne è nuova prova la lettura che ci offre del celebre Infinito, attenta a echi e memorie con cui il precoce lettore di Omero e Virgilio (l’Antichissimo e l’Antico, nel linguaggio del critico) nutre la rappresentazione dell’attimo. Sono posture immaginali che Leopardi assorbe, identificandosi o invece distanziandosi fino alla palinodia da quegli archetipi e che dimostrano come – dai giovanili idilli alla conclusiva Ginestra – la sua poesia non abbia mai cessato di rinnovarsi. A quella luce, legge posture celebri come quella dell’io che siede e mira nell’Infinito, come il mai intermesso dialogo col firmamento o la particolare auscultazione di vita e natura che s’accompagna a un sentimento profondo del sublime nel senso chiarito da un filosofo come Burke. È il vento che passa tra le fronde, sono i celebri «notturni», è l’attenzione prestata agli sconvolgimenti naturali e via dicendo.
Strateghi dell’io
In questi ritorni, Lonardi mostra la qualità della «sopravvivenza» degli dei antichi e l’adesione a, o il rifiuto di quelle grandi figure archetipiche: fra tutti quella di Odisseo-Ulisse o della fascinosa Saffo, con la tradizione che è loro fino al Settecento. Di Saffo, la più antica poetessa arrivataci, Leopardi avvertì tutto il fascino, ben visibile nella declinazione del grande mito della rupe di Leucade. Ma tutto questo patrimonio antico, certo connaturato per un poeta che molto presto adotta il greco e legge l’ebraico, è poi aggiornato sulla grande letteratura europea. Le pagine di Lonardi restituiscono qui novità e linfa a quel dialogo così intenso che Leopardi promosse con i grandi testi, volta volta lungo una linea wertheriana o sul fronte di un «naturalismo» che in Chateaubriand e in Rousseau diede esiti assai diversi. E che il critico legge accostando ad altri grandi strateghi dell’io come l’Alfieri della Vita.
Affascina in questo libro, il dialogo centrato sulla «mobilità del canto» dei tre poeti, sulle «tante facce» cioè della loro poesia. In Leopardi è questione di un immaginario in movimento, che non cessa di ritualizzare i propri archetipi lungo la via che dagli idilli arriva alla Ginestra. In Montale, si esprime in un’ampia gamma di temi e registri che dicono la complessità di un poeta che si volle presto «poeta integrale». La poesia di Orelli allarga il cerchio, dopo L’ora del tempo (1960) fino alle sapienti difrazioni di Spiracoli (1989) o Il collo dell’anatra (2001), raccolte in cui il sentimento di meraviglia di fronte alla vita anima escursioni linguistiche inattese. In questi scritti, le sensibilissime antenne di Lonardi si nutrono più che nel passato di un gusto quasi «morelliano» per i dettagli, che irrompe in poesia e aspetta chi sappia – come lui – valorizzarlo nell’interpretazione. Il che spiega anche perché le sue anamnesi portino spesso in luce aspetti finora non emersi di questi poeti. Di Montale, il poeta che Lonardi avverte più «classico» del Novecento, schizza una preziosa tavolozza di temi e registri mostrando (ah Deleuze...!) le molteplici «linee di fuga» della sua poesia. Questa «mobilità del messaggio poetico», quasi un controcanto all’idea di «classico» che ho ricordato, lo interessa in tutti e tre gli autori. Di Montale, il critico predilige una linea fra molte, che con mirabile efficacia nominale chiama «larica». Lari è parola-concetto ben montaliano per indicare gli spiriti protettori di chi lotta su terra («Lare della dispersa tua famiglia» in un celebre testo delle Occasioni) e qui indicano i genitori di cui è memoria in due poesie tratte dalla Bufera. Non è un caso – ci dice Lonardi – che i Lari emergano, come luce nelle tenebre, in quella terza raccolta montaliana, certo la più compromessa con la tragedia umana («quando tutto rovina – nota il critico –, anche la voce dei Lari si fa più presente, più riconoscibile»). Di questo affioramento dall’Oltremondo, Lonardi indaga le modalità, cioè le filigrane e gli archetipi poetici (dall’Eneide a Dante ai Sepolcri del Foscolo), ma altrettanto le differenze (la critica è sempre arte del comparare).
A mia madre, grande testo di una sezione parlante nel titolo, Finisterre (la pubblicò a Lugano Pino Bernasconi), giustifica così il paragone con i più marmorei versi di Ungaretti, un poeta che Lonardi a ragione sospetta non amatissimo da Montale. Tocchiamo qui la cifra vera del libro, che sta nella peculiare sapienza con cui il lettore fa emergere e dialogare memorie diverse nei tre autori – consce o inconsce poco importa –, che orientano poi l’interpretazione.
Di Orelli, una poesia come Sera a Bedretto già aveva attirato lettori come Solmi, Mengaldo o il cugino Giovanni Orelli. Ora il critico mostra come si possa procedere per altri personalissimi sentieri. La scena della poesia è collocata in un’osteria (che Giovanni Orelli chiarì essere quella del cugino Diego a Bedretto), dove giocatori di tarocchi si affrontano sotto lo sguardo «lunatico e pietoso» di alcune capre che fanno capolino sulla soglia. Sono guardati e non lo sanno. La scena ricorda a Lonardi i «molto rustici» Joueurs de cartes di Cézanne e di van Gogh ed appare fissata come fuori del tempo; ma l’istante ludico che fissa si carica poi, attraverso la valenza simbolica dei tarocchi, di un’aura infinitamente più grave. Nella matericità del linguaggio, il critico riconosce qua e là «debiti» alti montaliani e non; ma soprattutto dimostra come quel gioco rinvii a una più vera e discreta serietà della vita. In modo analogo, ci dice, a quello che Orelli fa in altre poesie, dove si passa con sapiente naturalezza da una dimensione ludica a quella seria col risultato che il significato deborda da quello più immediatamente referenziale del testo.