LongLake

Blues to Bop, oltre la musica una grande ricarica d’energia

Si è concluso sabato sera il ciclo di concerti dedicati alla musica afroamericana, un ampio viaggio tra epoche e stili con un denominatore unico: la carica comunicativa e la voglia di divertire il pubblico presente
Uno dei momenti «clou» della manifestazione: il concerto di Edoardo Bennato venerdì sera al Boschetto Ciani. © CdT/Chiara Zocchetti
Alessandro Zanoli
20.07.2025 22:30

È una passeggiata non troppo lunga, il LongLake nel Parco, da un capo all’altro. La serata festivaliera si inizia così, entrando al Ciani e camminando verso il Palco Foce. È tardo pomeriggio. Intorno ci sono famigliole con bimbi che giocano, turisti a passeggio. La musica che si inizia a sentire in lontananza potrebbe sembrare quella di Lugano Marittima, dall’altra parte del fiume. Invece no, è proprio il piccolo palco sotto la tenda tesa tra gli alberi, là in fondo, una «location» veramente bella, informale, qui nel tramonto sulla riva del lago, tra bagnanti in costume e molti curiosi con il mojito in mano. Il gruppo Østrik Quintet suona del jazz mainstream, con venature di bossa e di funky, un buon modo per cominciare la serata. Poi lo seguirà un gruppo più blues/rock, i Dimeblend, volti noti come quello di Mauro Fiero al basso: e l’atmosfera è, di nuovo, molto amichevole. La gente ascolta un po’, accenna qualche passo di ballo e poi si sposta, cammina qua e là, ma il senso dell’esercizio è quello: vivere una serata musicale di fine settimana a Lugano, e qui si comincia presto… siamo appena all’aperitivo.

Ma il programma incalza e consiglia una puntatina alla Rivetta Tell dove sta per esibirsi il gruppo della cantante Little Chevy. Il lungolago di Lugano, dalla parte dei palazzi Gargantini, progressivamente si anima di bancarelle e c’è una bella atmosfera di attesa. «Are you ready for the blues?» grida verso il pubblico il chitarrista Markus Werner. Le prime note di vero blues le portano proprio loro, ma ad ascoltarli, per ora, non ci sono molte persone. Il fatto è che tra mezz’ora il palco principale ospiterà Edoardo Bennato e il pubblico comincia già ad affluire verso il Boschetto, al centro del Parco. Bellissima «location» anche questa, un po’ scarsa di sedie (ce ne accorgiamo noi di una certa età). Ma poi ce ne dimentichiamo. Il concerto del cantautore napoletano è un concentrato di ricordi, una sorta di iniezione di adrenalina, perché lui snocciola dal palco il repertorio dei suoi classici, proprio quelli che avremmo voluto sentirgli suonare. Li ha riarrangiati in una chiave molto più rock, ma le radici si sentono: la sua presenza al festival del blues è più che giustificata. I titoli che rimbalzano dal palco sono Abbi dubbi, In prigione, La torre di Babele, Capitan Uncino e gli altri dieci immaginateli voi. Dopo uno strano finale, con giallo (è mancata la corrente e non si è potuto suonare subito il bis richiesto a gran voce: c’è stato un sabotaggio?) i tecnici si danno da fare per preparare il palco per Philipp Fankhauser.

Abbiamo tempo per una veloce incursione a Rivetta Tell e ascoltare qualche brano dal quartetto di Max Dega, forse uno dei più noti bluesman nostrani, dei più veraci. Ma poi di nuovo al Boschetto: e sul palco c’è Fankhauser con tutta la sua classe e personalità. «È difficile salire sul palco dopo Bennato», si lamenta quasi un po’ scoraggiato il cantautore svizzero tedesco, ma lentamente il suo gruppo comincia a impostare la routine del suo collaudatissimo show. Ce la mettono tutta per trasmettere energia al pubblico, che reagisce molto bene. Fankhauser propone nel corso del suo show gran parte dei brani del suo ultimo disco Ain’t That Something. Oltre ai numerosi blues, interpretati con grande presenza scenica e con una voce che ci sembra più roca del solito, dopo una bellissima versione di I’ve Got Dreams to Remember di Otis Redding ecco che Fankhauser propone a sorpresa un brano di Serge Reggiani dal titolo L’italien: e qui ci si stupisce davvero di scoprire nel bluesman bernese la classe e l’anima di un ottimo chansonnier francese.

Chiusa la prima serata con molto successo, nella seconda, sabato sera, sui due palchi «agli antipodi» del parco abbiamo potuto ascoltare e saltellare sulle note dell’armonica di Egidio «Juke» Ingala and The Jacknives e poi più tardi il set abbastanza sconvolgente di Wet Rugs (avete mai sentito un violoncello suonare il blues? No, nemmeno noi). Nel Boschetto ci siamo poi trovati ad attendere un musicista poco conosciuto ma di grande nome, Joachim Cooder. Il suo concerto, in un certo senso, è il meno blues di quelli ascoltati al festival, ma allo stesso tempo è forse il più vicino alle radici della creatività di questa musica di quanto lo siano stati tutti gli altri. Cooder, forte dell’esperienza nel campo della ricerca musicologica che ha ereditato dal padre Ry, ha proposto un suo repertorio veramente molto originale, anche solo nella sua strumentazione. Un set minimalista: la sua m’bira è una tavoletta di origine africana, una specie di kalimba più estesa e con il suo suono ritmico e metallico richiama immediatamente atmosfere di quel continente. Più blues di così, è difficile sentire: le canzoni di Cooder sono quasi ipnotiche, cantate con una voce nasale, uniforme e introversa. Accompagnato dall’altrettanto originale chitarrista Adriano Viterbini, vero mutaforme in grado di estrarre dalle sue chitarre suoni particolari e suggestivi, lo spettacolo di Cooder è stato a dir poco sciamanico, eroico, rilassante. Tutto l’opposto, in un certo senso, di quanto proposto in seguito da Gennaro Porcelli con il suo quartetto. Il chitarrista napoletano, già presente la sera precedente nel gruppo di Bennato, ha offerto un set di blues bianco di grande potenza ed energia, quasi tutto costruito su sue composizioni. Una in particolare, Johnny, dedicata non a caso a Johnny Winter, lascia perfettamente immaginare il calore e la potenza del suo suono.

Blues to Bop si è concluso con la tesissima esibizione di Billy Branch (più rock’n’roll che blues, in realtà), che è stata il coronamento di un viaggio, riportando il blues nelle mani di chi quella musica l’ha creata. Branch, classe 1951, è uno degli ultimi tra i bluesmen che sono stati veramente a contatto con la schiera degli interpreti storici. È un anello di congiunzione, unico e ormai quasi sacro. Ascoltarlo è stato un privilegio, che ha suggellato una intensa due giorni di suoni e di declinazioni del blues, da Napoli alla California, dalla Svizzera a Chicago. Sul «LongLake» la festa continua nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, ma questa edizione di Blues to Bop ha lasciato sicuramente qualche ricordo speciale, da rievocare magari con soddisfazione nei prossimi anni.