Il tesoro della necropoli di Lipari: le maschere che riprendono vita

«L’arte è di gran lunga meno forte della necessità»: sono di Eschilo i versi che, provocatori, rimbombano tra le mura del carcere di Opera di Milano. La scena ricorda un gioco di specchi: a parlare ai detenuti è infatti Prometeo, il primo prigioniero della Storia. Punito da Zeus per aver donato agli uomini il fuoco e la speranza, l’eroe viene legato sulle pendici del Caucaso e lì è costretto prigioniero per centinaia di anni: Prometeo incatenato è infatti il titolo della tragedia di Eschilo che ne racconta le vicende, un dramma risalente al quinto secolo avanti Cristo. Una rappresentazione, quella milanese, che si inserisce in un ben più ampio progetto di sperimentazione: teatrale, tecnologica, sociale ma anche accademica. Non è infatti solo il luogo a rendere unica questa messa in scena: così come prevederebbe originariamente la tradizione del teatro greco, gli attori indossano delle maschere. Un’iniziativa ad ampissimo respiro, che in questi mesi ha coinvolto l'Università Cattolica di Milano, ma anche gli atenei di Urbino, Reggio Calabria, il Museo archeologico Luigi Bernabò Brea di Lipari e che ha visto anche il sostegno dell’Unione Europea, grazie al programma di fondi PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) uniti a fondi PRIN (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale). «Si tratta di un progetto di ricerca scientifica e cultura diffusa, che mira ad abbattere le barriere fisiche e cognitive per promuovere la partecipazione culturale attiva» spiega Elisabetta Matelli, professoressa di Filologia classica, Retorica, Storia del teatro greco e latino all'Università Cattolica di Milano. Dal 2011, è presidentessa dell’Associazione Kerkís - Teatro Antico In Scena, fondata a Milano e che riporta in vita i drammi del teatro greco sui palcoscenici italiani e, già in tre occasioni, anche ticinesi, nel 2006 e nel 2013 al Teatro Foce di Lugano, mentre nel 2022 al teatro dell’oratorio di Balerna. L’atto conclusivo del progetto dedicato alla messinscena del Prometeo incatenato è avvenuto proprio a Lipari con un evento di due giorni – il 2 e il 3 maggio - ricco di workshop, convegni e spettacoli alla scoperta dei reperti archeologici dell’isola e della loro reinterpretazione contemporanea.
Dalla miniatura al teatro
L’iniziativa si distingue per un approccio sperimentale: innanzitutto, le maschere indossate dagli attori durante la rappresentazione non erano originariamente destinate al teatro. «Si tratta di riproduzioni di miniature rinvenute all’interno delle tombe nella Necropoli di Lipari: qui infatti, oltre all’usuale corredo funebre, sono state ritrovate anche delle piccolissime copie – massimo 10 centimetri di lunghezza – di maschere che probabilmente riproducono modelli teatrali, caratterizzate da una mirabile ricercatezza artistica che ha subito suscitato l'attenzione degli studiosi» racconta la professoressa. «Grazie a dei rilevamenti digitali dei volti degli attori, siamo riusciti a capire quali fossero i rapporti di ingrandimento. La cosa stupefacente, è che questi oggetti avevano già delle proporzioni fisiologiche perfette, dunque è bastato ingrandirle, di tre, quattro o cinque volte a dipendenza, ma non è mai stato necessario deformarle» racconta Matelli. Originarie del quarto e terzo secolo avanti Cristo, queste pregiate opere di artigianato furono rinvenute a metà del Novecento dagli archeologi Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier, che dedicarono a questi reperti gran parte della loro vita. «Brea ha classificato queste maschere secondo un proprio criterio, dividendole in tragiche e comiche. Nell’analizzarle però, mi sono chiesta se i due generi fossero necessariamente esclusivi: ho deciso di fare una scommessa, e vedere se alcune maschere considerate comiche ma dall’espressività tragica potessero funzionare anche per i personaggi di una tragedia» continua l’esperta.
Le due facce della maschera
La parola latina per designare la maschera è «persona»: uno schema teatrale che si articola su questo concetto, come nel caso greco, presuppone dunque l’idea che sia il volto a conferire l’identità al personaggio, non l’interprete. «L'attore in questo paradigma sparisce: è un modo di fare teatro in cui non c’è alcuno spazio per il protagonismo dell’artista dietro la maschera» spiega Matelli. L’utilizzo di questo espediente rispondeva però originariamente a una necessità economica: «Un dramma con una decina di personaggi poteva essere messo in scena da un magro manipolo di tre attori, che negli intermezzi corali si cambiavano la maschera e assumevano così un ruolo differente. Ciò chiaramente – continua la professoressa – richiedeva un’abilità recitativa notevole». La maschera dunque come involucro inanimato che, tra le incavature che ne definiscono i connotati, custodisce un’identità cristallizzata: storie e attributi riportati in vita dagli interpreti sul palcoscenico, ma non solo. I reperti di Lipari mettono infatti in risalto una seconda valenza della maschera, che va oltre la sua funzione teatrale: il fatto che queste miniature si trovassero all’interno di corredi funebri suggerisce infatti che potessero assumere anche un valore rituale. «La presenza delle maschere si spiega con l’idea che il viaggio del defunto nell'aldilà dovesse essere accompagnato da oggetti simbolicamente rilevanti in vita e che avrebbero potuto esserlo anche nella dimensione "altra"» racconta Matelli: una forma di auspicio dunque, di ciò che si sarebbe voluto avere, o essere, dopo la morte. «Un dato interessante riguarda la proporzione tra le tipologie dei reperti rinvenuti: il numero di maschere comiche è infatti sensibilmente superiore rispetto a quelle tragiche. C’era dunque una chiara volontà di essere accompagnati nell’aldilà da un personaggio che facesse ridere, e trovo – continua la professoressa – che questo sia un messaggio esistenziale molto forte».
I drammi, nel teatro e nella vita
Dal 2022 l’Associzione Kerkis ha iniziato una collaborazione con il Teatro del Carcere di Opera, nella periferia sud di Milano: questa volta, dunque, il museo non è riuscito solo a scardinarsi dalle proprie di mura, bensì a penetrare anche oltre i muraglioni di un penitenziario. «Per noi il carcere è un luogo di incontro incredibile: lavorarci ci ha aiutato molto a migliorare la qualità della nostra performance, per renderla accessibile a tutti» racconta Matelli, che aggiunge: «I detenuti hanno un grande desiderio di essere raggiunti da proposte culturali che li aiutino a evolvere le proprie forme di pensiero». Il teatro del penitenziario si trova all’interno di un lungo corridoio arcuato, all’ingresso del quale risalta, a caratteri maiuscoli, la scritta «Galleria delle opportunità»: un monito decisamente poco dantesco, che sottolinea come riabilitazione sia anche sinonimo di rieducazione, non solo privazione. «Ci impressiona sempre la capacità quasi terapeutica che questi testi, a migliaia di anni di distanza, ancora conservano: raccontano storie archetipiche, di fantasia, che aiutano a elaborare i drammi che ognuno vive, noi fuori ma anche i detenuti dentro al carcere». Davanti a questo spettacolo, ci chiediamo dunque se la sentenza eschilea non sia forse stata smentita: l’arte, talvolta, è in grado di vincere anche la necessità.