L'intervista

«Tori e Lokita sono le vittime designate della nuova schiavitù contemporanea»

Luc e Jean-Pierre Dardenne, i registi belgi con due Palme d’oro in bacheca - sono sbarcati a Bellinzona mercoledì sera per presentare il loro ultimo film «Tori et Lokita» (in uscita anche nelle sale). Li abbiamo incontrati per parlarne.
Jean-Pierre e Luc Dardenne con il Castello d’onore ricevuto mercoledì sera al Mercato coperto di Giubiasco . © fotopedrazzini.ch
Antonio Mariotti
25.11.2022 06:00

Erano da anni tra le «prede» più ambite di Castellinaria, che ha mostrato tutti i loro lungometraggi, e finalmente Luc e Jean-Pierre Dardenne, i registi belgi con due Palme d’oro in bacheca - sono sbarcati a Bellinzona mercoledì sera per presentare il loro ultimo film Tori et Lokita (in uscita anche nelle sale). Li abbiamo incontrati per parlarne.

Nelle vostre note di regia sul film scrivete che i due protagonisti sono obbligati a «fare famiglia», cioè a essere più che semplici amici: una condizione indispensabile per cercare di sottrarsi alla loro situazione di precarietà?

Luc Dardenne (LD): «Sì, dall’inizio la nostra idea era che, per sopravvivere, i migranti, rimasti soli, dovessero creare una famiglia con qualcuno a cui li lega una fiducia reciproca. Nello stesso tempo, ciò fa sì che Tori e Lokita possano inventare una storia che potrebbe permettere alla ragazza di regolarizzare la propria posizione. Non bisogna però ridurre tutto ciò a un puro stratagemma: è il loro desiderio profondo, al punto che non possono più fare a meno l’uno dell’altra. Hanno bisogno di essere insieme e tutto il film va in questa direzione, fino alla fine, quando Lokita pensa che sacrificando la propria vita, possa salvare Tori».

Ciò che colpisce di più è che i sogni dei due ragazzi sono molto modesti: avere una casa, un lavoro. La nostra società oggi non è in grado di esaudire nemmeno questi sogni?

Jean-Pierre Dardenna (JPD): «No, perché li considera in primo luogo come dei nemici, persone in ogni caso sospette. La prima scena del film mostra proprio questo, durante l’interrogatorio di Lokita da parte della funzionaria dell’ufficio immigrazione. I loro sogni sono semplici, vogliono solo una vita normale. Ma questi sogni si scontrano con un clima di odio, d’indifferenza ma soprattutto di paura che li esclude a priori dalla nostra società, che li vede come degli invasori».

I minori non accompagnati che arrivano in Europa diventano quindi le vittime predestinate delle reti malavitose presenti ovunque?

LD: «Il 10 per cento dei minori che arrivano in Europa sono già in contatto con queste reti nel loro Paese di provenienza, soprattutto nel campo del traffico di droga o, per le ragazze, della prostituzione. Ma il 90 per cento di loro - in arrivo soprattutto da Siria, Iraq e Afghanistan - non hanno legami con la malavita e non vogliono averne. Quello che vogliono sono dei documenti in ordine, imparare un mestiere e lavorare o continuare a studiare. Ed è ciò che bisognerebbe permettergli di fare dopo i 18 anni. Perché se a quel punto capiscono che non riceveranno mai i loro documenti saranno loro stessi ad avvicinarsi alle reti criminali diventandone delle facili prede. Gli prometteranno che se ubbidiranno agli ordini riceveranno dei documenti, come dicono a Lokita nel film. Ed è vero che esiste un traffico di documenti falsi e che ci sono migranti che hanno dei documenti falsi. Per cambiare questa situazione, per far sì che la malavita abbia meno facilità a impossessarsi della vita di questi giovani, non c’è altra scelta che cambiare le leggi».

Questa situazione porta alla nascita di una forma moderna di schiavitù?

JPD: «Beh, la malavita ha sempre funzionato così e persone come Tori e Lokita possono davvero diventare degli schiavi, anche perché - non avendo famiglia - se scompaiono nessuno s’inquieterà o reclamerà il loro corpo. Ma quel che inquieta ancora di più è che anche nella società legale ci sono molti sans papiers che lavorano e che proprio per questo non possono permettersi di portare avanti delle rivendicazioni di nessun genere. Questa è una forma di schiavitù presente in tutte le società europee. È la guerra dei poveri. Ed è orribile».

LD: «È quello che è successo anche in Qatar. E in apparenza non dà fastidio a nessuno o a pochissime persone».

Come mai avete adottato una struttura da thriller, da film noir per Tori et Lokita?

LD: «Non era una scelta obbligata, ma abbiamo pensato che si adattasse a questa storia per far sentire la presenza della morte. Nei nostri film cerchiamo sempre di salvare il nostro protagonista, qui erano due e quindi uno può morire, perché questa possibilità è sempre presente. Tori e Lokita sono ingenui ma quelli con cui si trovano a che fare non lo sono. Al contrario, sono senza pietà. L’amicizia tra i due ragazzi è la luce che si contrappone all’oscurità che si respira nell’hangar dove si coltiva la canapa. Lì a regnare è solo il linguaggio della forza, non ci sono alternative».

In questo film i due giovani protagonisti non possono contare sulla presenza tutelare di un adulto al loro fianco. Questo ha complicato il vostro lavoro con Pablo Schils e Joely Mbundu che interpretano Tori e Lokita?

JPD: «Di solito prevediamo 4 o 5 settimana di prove filmate per i nostri film prima di iniziare le riprese. E questa volta ci siamo trovati di fronte due persone che non avevano mai recitato, animate dalla volontà e dal desiderio di farlo, ma che non si conoscevano e ci siamo detti: che facciamo? Finora effettivamente, anche senza esplicitarlo, avevamo sempre potuto contare sulla presenza di un attore o di un’attrice professionista che poteva dare il ritmo giusto alla scena o adattarsi a quello del bambino. Stavolta questa possibilità non c’era e, come sanno tutti i registi che hanno lavorato con dei bambini o degli adolescenti che non hanno mai recitato, bisogna cercare di non mostrare loro troppo quel che devono fare perché il rischio è di scadere nell’imitazione. Alla fine però abbiamo dovuto, almeno un po’, mostrare cosa volevamo da loro, sperando che lo assimilassero alla loro maniera, che lo facessero proprio. Ed è quello che è accaduto, soprattutto per ciò che riguarda la paura di sembrare stupidi, di non osare mostrarsi per quel che si è davanti alla macchina da presa. Per far sì che ciò accada bisogna creare un clima di fiducia nei nostri confronti e tra di loro. Come tutti i ragazzi, hanno imparato in fretta tante piccole cose durante le prove e ciò ha permesso loro di dare un ritmo ai loro personaggi. La prima settimana di prove è stata piuttosto stressante, ma poi le cose hanno iniziato a funzionare, anche grazie al fatto che dovevano esercitarsi a cantare insieme».

Gli autori

Due Palme d'oro nel 1999 e nel 2005, per Rosette e L'Enfant

Nati in Belgio rispettivamente nel 1951 e nel 1954, Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno iniziato a produrre e dirigere documentari nel 1975. Il loro debutto nella fiction è datato 1987, ma giungono al successo nel 1996 con La promesse, a cui fa seguito Rosetta con cui conquistano la loro prima Palma d’oro a Cannes nel 1999. Un trionfo bissato nel 2005 con L’Enfant. Tra gli altri loro titoli: Le Fils (2002), Le Silence de Lorna (2008), Le Gamin au vélo (2011) e Le jeune Ahmed (2019).