La recensione

Stevie Wonder in jazz con Fabrizio Bosso

Il nuovo album del trombettista italiano è un omaggio all’artista prodigio della Motown, del quale rilegge in acustico sia i capolavori «soul» giovanili, sia alcuni classici «elettrici» degli anni Settanta così da esaltare lo spessore compositivo del «Piccolo Stevie Meraviglia»
Da sinistra, il batterista Nicola Angelucci, il bassista Jacopo Ferrazza, Fabio Bosso e il pianista Julian Oliver Mazzariello.
Alessio Brunialti
01.12.2022 06:00

Il genio musicale di Stevie Wonder ci manca, ci manca da 17 anni visto che A Time To Love, il suo ultimo album, risale all’ormai lontano 2005. È una storia unica la sua, ragazzo prodigio scoperto dal «mogul» della Motown Berry Gordy che pensò di avere trovato il nuovo Ray Charles, non solo perché quello che all’epoca era chiamato «Little Stevie» era affetto da cecità, proprio come il maestro (dal quale ha tratto ispirazione non solo artistica), ma anche perché a soli 12 anni era già in grado di suonare pianoforte, sax, armonica e batteria come un virtuoso. E aveva una voce acerba, ma bellissima. Per tutti gli anni Sessanta si è fatto valere realizzando brani via via sempre più maturi, fino al momento in cui si è sentito adulto e ha preso il controllo della propria produzione. Negli anni Settanta ha inanellato una sequenza di capolavori impressionante, pressoché ineguagliata, migliorando sempre. Il culmine è stato raggiunto da Songs In The Key Of Life, un album che traboccava creatività al punto che neppure un album doppio riusciva a contenerla (infatti ai due 33 giri dell’edizione originale si aggiungeva un Ep con altri quattro brani). È proprio a quel decennio d’oro che ha guardato Fabrizio Bosso per We Wonder, tributo in jazz che rilegge successi, ma anche qualche perla minore con un quartetto classico che affianca alla tromba del musicista il pianoforte di Julian Oliver Mazzariello, il contrabbasso e il basso elettrico di Jacopo Ferrazza e la batteria di Nicola Angelucci con Nico Gori ospite al clarinetto e al sax tenore. Intrigante la scelta di un suono acustico per brani che, in origine, erano all’avanguardia anche nell’ambito del sound elettrico (come non ricordare il timbro inaudito del Clavinet che apriva Superstition, per fare solo un esempio?). Una scelta che valorizza la scrittura di Wonder, autore di melodie contagiose e di riff implacabili, come quello di I Wish, che apre il lavoro con il botto. Prosegue Moon Blue che arriva proprio da A Time To Love, per dimostrare che, fino all’ultimo, Stevie ha scritto pezzi di spessore. Anche Overjoyed, da In Square Circle, è una gemma e Bosso ne esalta il lirismo con il suo strumento. Visions è trasfigurata in una forma che non spiacerebbe al Miles Davis sulla via dell’elettricità, quello di Filles de Kilimanjaro, per intendersi. My Cherie Amour, invece, arriva dagli anni Sessanta e sebbene si tratti di una canzoncina da intonare sotto la doccia, non è priva di spunti interessanti e sviluppabile in questa formula. E poi, dopo I Wish, ci sono le canzoni «in the key of life»: Another Star, la scattante Sir Duke e una breve e ancora milesiana Isn’t She Lovely impreziosiscono un lavoro che vede anche un omaggio autografo: We Wonder.