L'intervista

Ecco il ticinese che ha aiutato un marchio cinese a spodestare (quasi) Tesla

Si chiama Michele Jauch-Paganetti e dal 2019 è il responsabile del design degli interni di tutti i marchi del gruppo BYD: «La mia fortuna? Ho sempre amato le automobili e da piccolo ero bravo a disegnare»
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Marcello Pelizzari
01.01.2024 06:00

Nel riannodare il filo dei ricordi, Michele Jauch-Paganetti sorride. Ticinese giramondo, dopo una vita in Volkswagen e in Mercedes-Benz è stato assunto da BYD. Il colosso cinese (quasi) padrone del mercato delle automobili elettriche, con buona pace di Tesla. È stato assunto assieme ad altri occidentali affinché le vetture prodotte non fossero più soltanto affidabili e sicure. Già, per tenere testa al senso di quell'acronimo – Build Your Dreams – era necessario aggiungere all'equazione la bellezza. «E così, sono stato nominato responsabile del design degli interni» afferma divertito.

Incontriamo Michele poco prima che rientri a casa, o meglio in Cina, a Shenzhen. «La verità – dice – è che a me le automobili sono sempre piaciute e questo, credo, mi ha avvantaggiato». Ad accompagnarlo c'è una delle sue figlie. E lo sguardo di Michele, di tanto in tanto, corre a cercarla. Come se, inconsciamente, volesse chiederle scusa per essere andato dall'altra parte del mondo a inseguire un sogno, anzi il sogno di un miliardario, Wang Chuanfu. «Ho sempre avuto la passione per le automobili, dicevo, e poi mi piaceva disegnare. Avevo il massimo dei voti in disegno, in religione e in ginnastica. Quindi, beh, si trattava di fare il prete, lo sportivo o appunto il designer da grande».

Gli anni Ottanta e Montreux

Il legame di Jauch-Paganetti con il design nasce negli anni Ottanta, dopo aver finito il Liceo e al rientro da un anno sabbatico passato in Germania, a imparare il tedesco. «Per caso, su un giornale, trovai un articolo dedicato a questa scuola di design a Montreux. Era una scuola non ancora riconosciuta del tutto in Svizzera, ma molto rinomata all'estero. Quell'esperienza, in un certo senso, mi aprì il mondo. Fu quasi uno shock, ma positivo».

Quindi, il desiderio di iniziare una carriera in California – un desiderio subito accantonato per problemi di visto – e la gavetta in Germania. Ma anche in Repubblica Ceca. Con Volkswagen e Skoda. «Feci la spola per alcuni anni fra Praga, dove vivevo, e Mlada Boleslav. Ma il lavoro, in quegli anni, mi portò addirittura in Brasile, a San Paolo, dove c'era uno stabilimento Volkswagen». 

Infine, l'approdo in Mercedes-Benz. A cavallo del nuovo millennio. «Stoccarda aveva appena aperto uno studio a Como e cercavano un team leader per il design. È buffo pensare a come ottenni quel posto: una sera mi chiamò un amico e mi disse, presentandomi la sua fidanzata, che lei sarebbe stata la mia futura capa. Fu lui a propormi, in sostanza». L'esperienza di Como, ricorda il nostro interlocutore, fu incredibile. «All'inizio c'erano solo due tavoli e due sedie, nient'altro. Bisognava aggiungere tutto il resto. In pochi anni, arrivammo a rivaleggiare con i progetti di Stoccarda mentre io fui nominato addirittura direttore dello studio visto che la famosa capa nel frattempo se n'era andata. A fine 2018, tuttavia, Mercedes decise di chiudere quello studio per aprirne un altro a Nizza, in Francia. Una decisione che, francamente, fatico a comprendere ancora oggi. Soprattutto pensando alle tante cose belle fatte: riuscimmo perfino a rifare gli interni a un elicottero e a firmare gli interni di uno yacht». 

In Cina cominciai con un marchio e cinque modelli. Oggi, i marchi sono cinque e i modelli una sessantina. Oramai non li conto più. La crescita è stata incredibile, esponenziale. Non si è mai vista una cosa del genere

Amate coincidenze

«Le coincidenze – spiega Jauch-Paganetti – sono interessanti». Di andare a Nizza, a fine 2018, Michele non voleva saperne. «Dopo diciotto anni, poi, ero un po' stufo. Le solite dinamiche, le solite persone, la stessa Mercedes che era diventata ai miei occhi un po' statica e conservativa». Serviva altro, insomma. «In quel periodo, evidentemente si era sparsa la voce, ricevetti molti contatti e molte proposte. Fra queste, c'era BYD. Un marchio che conoscevo dato che aveva già collaborato con Mercedes a una joint-venture chiamata Denza. I dirigenti di BYD mi invitarono a Shenzhen, mi proposero un'ottima posizione: direttore globale degli interni di tutto il gruppo».

Michele salì sul primo aereo e si fece un'idea in prima persona del materiale con cui avrebbe lavorato. Oggi, ripensando agli esordi, quasi non ci crede. «In Cina cominciai con un marchio e cinque modelli. Oggi, i marchi sono cinque e i modelli una sessantina. Oramai non li conto più. La crescita è stata incredibile, esponenziale. Non si è mai vista una cosa del genere. Mai. Ho visto e vissuto dall'interno questa parabola. Ma, attenzione, non è che noi occidentali, chiamati a dare bellezza a queste macchine, abbiamo dato un tocco di magia e all'improvviso tutto è cambiato. Il segreto di questa cavalcata è un know-how diffuso. A tutti i livelli». Certo, lo stesso Jauch-Paganetti riconosce che le macchine, prima del suo arrivo e dell'assunzione di altri occidentali, erano brutte. «Potevi e puoi avere ottime batterie, una tecnologia che già nel 2018 era all'avanguardia rispetto ai costruttori europei, ma le vetture, in effetti, non erano belle. E l'automobile è anche uno status symbol». 

Il non detto, evidentemente, è che i cinesi hanno poca fantasia. O, nella migliore delle ipotesi, sono dei copioni. Di qui la necessità di assumere dall'Europa. Michele, però, parlava anche di coincidenze. «Wang Chuanfu, il proprietario di BYD, è sempre stato un appassionato di Mercedes. Voleva a tutti costi un designer che avesse lavorato per il marchio di Stoccarda. E questa, beh, è stata la mia fortuna. Ero la persona giusta al momento giusto».

A colpire Jauch-Paganetti, in Cina, non sono state solo le moltitudini di modelli lanciati negli anni. No, è stato pure il ritmo con cui le vetture sono passate dalla semplice ideazione alla produzione in serie e, infine, alla vendita. «C'è un ritmo che, per noi europei, è semplicemente improponibile. BYD, in sostanza, sono cinque anni che non si ferma. Che continua a guardare oltre. A una nuova macchina. A una nuova tecnologia. E via discorrendo. Forse, è vero, i cinesi non sono sempre efficienti. Per ammazzare una mosca, come dico sempre, usano il cannone. Intanto, però, il cannone ce l'hanno».

Il successo di BYD è legato a doppio filo all'elettrificazione. Che cosa cambia, per un designer, quando il modello su cui si lavora è elettrico? Nulla, dice Jauch-Paganetti. «È vero che alcuni cercano di spingere su determinate linee. Ma non puoi saltare da una generazione all'altra senza dare punti di riferimento». Quanto all'equilibrio fra le parti, al compromesso fra utilità, sicurezza e bellezza, il nostro interlocutore non ha una risposta univoca: «Io, di mio, cerco di seguire un principio. Non copiare. È qualcosa che sto cercando di inculcare ai cinesi. Bisogna essere originali. Un cinese, magari, ti vede con addosso un maglione e dice: bello, lo faccio uguale. La loro è una creatività incontrollata, diciamo».

Sto conoscendo i cinesi non tramite quella che loro definiscono propaganda occidentale ma con un contatto diretto. Credo che molti discorsi fatti in Occidente sulla Cina nascano dalla paura

Il discorso politico

C'è, attorno a BYD, anche un discorso politico. A spingere BYD, scrivevamo pochi giorni fa, finora è stato soprattutto il mercato nazionale, quello cinese. Di qui la domanda: sarà possibile replicare questo successo ovunque? Sì, no, forse. Anche perché l'Europa sembrerebbe vicina a varare misure simili a quelle statunitensi, con l'imposizione di tariffe più alte per l'importazione di auto cinesi al fine di proteggere migliaia di posti di lavoro nel settore. Quanto all'America, il mercato è stato giudicato off-limits dal management di BYD considerando le tensioni commerciali, e non solo, fra Pechino e Washington.

Detto ciò, la cosiddetta cazzimma a Wang non manca. Sebbene non frequenti i social e si tenga lontano dai riflettori. Poche settimane prima che l'Unione Europea avviasse un'indagine sui sovvenzionamenti all'industria automobilistica in Cina, Wang ha dichiarato che per i marchi del Dragone è giunta l'ora di, citiamo, demolire le vecchie leggende del mondo dell'auto. «Non condivido necessariamente le posizioni della dirigenza, ma sono contento di poter lavorare iniziato Cina e di conoscere quella realtà dall'interno, da un punto di vista privilegiato» chiarisce Jauch-Paganetti. «Sto conoscendo i cinesi non tramite quella che loro definiscono propaganda occidentale ma con un contatto diretto. Credo che molti discorsi fatti in Occidente sulla Cina nascano dalla paura. D'altro canto, rimanendo alle auto, se sul mercato arrivassero sempre più vetture cinesi con un'ottima qualità e un costo inferiore rispetto ai modelli europei o americani, uno finirebbe per chiedersi: che senso ha acquistare una macchina di un marchio classico?».

La pandemia

Da un punto di vista personale, dicevamo, stare così lontano dalla propria famiglia non dev'essere facile. Né evidente. «No, non lo è» ammette il nostro interlocutore. «Se fossi rimasto in Mercedes, però, probabilmente dopo un po' mi avrebbero messo su un binario morto. Con la scusa di dover fare largo ai giovani. Giusto, ma ai giovani una guida avrebbe fatto comodo. E questo è un aspetto che apprezzo particolarmente della cultura cinese: l'anziano è molto considerato, è visto come un saggio, qualcuno che può trasmettere il sapere. In Cina mi sono sentito di nuovo importante perché loro mi hanno fatto sentire importante. Importante per l'azienda. Io, di mio, penso di avere ripagato la fiducia accordatami. I risultati di BYD li sento un po' miei, anche se a noi designer piace sempre dire che è grazie a noi se si vendono più macchine quando in realtà il successo è un insieme di fattori, come dicevo».

Anche in Cina, conclude Jauch-Paganetti, in ogni caso ci sono aspetti negativi. «Come ce n'erano in Germania o in Italia. Le mie figlie, è vero, hanno digerito a fatica il fatto che dovessi andare a lavorare così lontano. Il problema, poi, è che io ero partito prima del Covid. Con l'idea di tornare ogni tre mesi circa e passare un periodo più o meno lungo in famiglia. La pandemia, a conti fatti, mi ha tenuto separato dagli affetti per un anno e mezzo. È stato pesante, molto pesante. Sono rimasto bloccato a Shenzhen, in lockdown. E quando il Paese, timidamente, ha iniziato a riaprirsi, mi sono dovuto sorbire le quarantene al rientro in Cina. Era come finire in prigione. Solo per superare i controlli a Shanghai, ricordo, impiegai cinque ore. Lo straniero, in quel periodo, era visto come un appestato. Mi capitava, in ascensore o altrove, di vedere conoscenti che salutavo normalmente prima della pandemia voltarmi la faccia e mettere addirittura la mano davanti alla mascherina come ulteriore misura di protezione. Capitava anche che un tassista non volesse prendermi con sé. Per fortuna, ora è tutto finito. E posso concentrarmi sulle mie amate automobili». 

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