L'intervista

Emmanuel Carrère: «I grandi eventi mondiali? A volte mi sento disarmato»

Lo sguardo di un grande intellettuale europeo sulle più importanti questioni di attualità
© KEYSTONE/Laurent Gillieron
Marco Ansaldo
26.05.2023 06:00

«Aleksej Navalnyj? Un uomo per cui provo un’ammirazione totale. E un soggetto straordinario, come Limonov. Potrei anche fare un libro su di lui, perché no? Una persona coraggiosa, che sta rischiando la vita. Molto diverso da quel mio altro protagonista, un piccolo fascista russo. Però, sono piuttosto io a dover capire se sono l’autore giusto per raccontarlo».

Emmanuel Carrère, 65 anni, negli scorsi giorni - prima di darci appuntamento anche al Salone del libro di Torino - ha ricevuto a Porto Cervo il Premio Internazionale Costa Smeralda 2023. Rilassato e felice, in mocassini e con una camicia oliva che riprende il colore degli occhi, accetta volentieri di parlare dei suoi libri. Titoli ormai tutti molto celebri, da Limonov appunto, al più recente V13, che non rinunciano ad affrontare temi ampi come la guerra e l’instabilità, il terrorismo dell’Isis e la strage del Bataclan a Parigi. È lo sguardo di un grande intellettuale europeo sulle più importanti questioni di attualità.

Il Costa Smeralda ha ben colto questo atteggiamento, motivando così il suo riconoscimento internazionale, assegnato per la prima volta lo scorso anno al premio Nobel per la Letteratura, lo scrittore turco Orhan Pamuk: «Profondo indagatore dell’animo umano, Emmanuel Carrère ha restituito, con tutta la sua opera, giunta oggi al successo di V13, il libro nel quale racconta le vicende processuali degli imputati delle stragi terroristiche francesi, alla letteratura la dignità e la funzione che le compete». E poi ancora: «Come i grandi scrittori russi, per esempio Dostoevskij, Carrère non smette di scavare, goccia dopo goccia, parola dopo parola, in quello che Agostino definiva “in interiore homine”. E i suoi libri (non è esatto definirli romanzi, solo romanzi) sono una radiografia che scruta nei protagonisti delle sue vicende, ma anche, e questa è la sorpresa, in Carrère stesso, ma anche in ciascuno di noi lettori».

Emmanuel Carrère, V13 è, come da sottotitolo, una “cronaca giudiziaria”. Raccoglie gli articoli in cui fra il 2021 e il 2022 descrisse su diversi quotidiani europei le udienze del processo sugli attentati jihadisti avvenuti nel novembre 2015 - un venerdì 13 (V13) - al Bataclan, allo Stade de France e in diversi bistrot, causando 130 morti e 350 feriti. Seguire il processo è stato un lavoro emotivamente difficile?
«Avevo immaginato che sarebbe stato terribile. Quello che non avevo previsto è che sarebbe stato anche bello, con alcuni momenti di straordinaria intensità da un punto di vista umano».

Che cosa l’ha colpita di più?
«Spesso si parla del fascino del male. In realtà, durante il dibattimento, il male era senza interesse. Mentre invece ci sono stati momenti in cui quello che diventava straordinario era la manifestazione del bene».

A che cosa si riferisce?
«Alla figura di Nadia, per esempio, madre di una delle vittime. Una personalità fuori dal comune. Tutte le testimonianze del processo avevano una loro intensità, ma la sua è stata particolare. Non solo perché parlava della morte della propria figlia, ma perché lei è una donna speciale. È egiziana, parla l’arabo e conosce bene quel mondo. Capiva cioè sfumature che ad altri sfuggivano. L’ho trovata unica. E con lei siamo tuttora in contatto>.

Durante il processo lei si è identificato con qualcuno?
«Tutta questa vicenda è stata una macchina da identificazione. Non solo il processo, ma ogni cosa che ruotava attorno alla faccenda degli attentati. La Francia intera si è identificata con le vittime degli attentati di quel venerdì 13 novembre. Durante il dibattimento non potevo identificarmi tanto con le vittime, anche per una questione di età, come è ovvio: erano giovani. Mi sono identificato invece con i genitori, perché io stesso ho figli che avrebbero potuto essere lì, avevano l’età delle vittime».

Gli attentati in questione avvennero nel 2015. Lei pensa che potrebbe succedere di nuovo un altro Bataclan?
«Pensare che non possa succedere di nuovo sarebbe una semplice illusione. Gli studiosi dicono che il jihadismo, come tutti i terrorismi, ha dei cicli: ci sono periodi con esplosioni, e poi periodi di calma. Però sarebbe sbagliato pensare che non possa ricominciare. Una certa fase, quella del Califfato, adesso è terminata. Ma chi ci dice che non possa arrivarne una nuova? E poi, attenzione: dico che, in modo simmetrico, esiste anche il pericolo di attentati da parte dei suprematisti bianchi».

Più che il dato religioso, quel che a loro interessa è il discorso politico e quello di appartenenza. Tutto qui

A proposito di questo, e in proiezione futura, lei ha provato a entrare nei meccanismi mentali di questa gente? Dove comincia la follia quando c’è di mezzo Dio?
«Non hanno in testa niente. Sono di una ignoranza religiosa integrale. Si pensa che nel loro cervello si annidi un grande mistero. In realtà non hanno nulla. Sono ignorantissimi. Fanatici puri. Più che il dato religioso, quel che a loro interessa è il discorso politico e quello di appartenenza. Tutto qui».

Lei ha ascendenze russe e georgiane, sua madre Hélène Carrère d’Encausse è una celebre storica, oggi segretaria dell’Académie française, e lei stesso è da sempre attento a tutto quel che ruota attorno al grande mondo russo. Da poco, con altri intellettuali, ha firmato un appello per la liberazione di Aleksej Navalnyj, l’oppositore di Vladimir Putin, detenuto in carcere in Russia dal 2021. Come considera la sua figura?
«Devo dire che ho un’ammirazione totale per Aleksej Navalnyj. Ha dimostrato di avere un coraggio straordinario. Dopo essere stato avvelenato, e poi curato in Germania, ha deciso di tornare nel suo Paese sapendo perfettamente che sarebbe stato arrestato. Ora rischia la vita. Come non si fa ad ammirare Navalnyj?».

Potrebbe essere il soggetto di un suo libro? Un altro Limonov insomma?
«Perché no? Visto dal punto di vista strettamente letterario sì. Navalnyj è come Limonov: cioè una persona fuori dall’ordinario. Il fatto è: che cosa posso fare io di un personaggio di questo tipo. Voglio dire: che cosa posso farci io, proprio io, e non un altro scrittore? Per Limonov avevo meno ammirazione di quanta ne abbia oggi per Aleksej Navalnyj. Però avevo sentito che ero io la persona giusta per descriverlo. Eppure la gente mi diceva: vuoi scrivere di questo piccolo fascista russo, ma sei pazzo? Infine l’ho fatto, perché capivo che potevo cavarne qualcosa di buono».

Lei come guarda all’aggressione russa all’Ucraina? Le sembra possibile una tregua in tempi brevi?
«Siamo ancora in una fase della guerra in cui nessuno dei due belligeranti vuole un negoziato. Nessuno lo sa, al momento. Tanto meno io».

Come considera Vladimir Putin?
«Il paradosso è che, soprattutto dopo aver scatenato il conflitto, in Ucraina e prima in Crimea, la sua Russia è diventata un universo orwelliano. Un luogo dove si può sostenere qualsiasi cosa, per esempio che il nero è bianco e che il bianco è nero, e tutti ci credono. Per cui lo scenario è che potrebbe anche succedere che alla fine Putin se ne esca dicendo: abbiamo vinto, è finita, facciamo una grande festa della vittoria».

Volevo andare a Mosca. Poi ho pensato che sicuramente verrei intercettato e metterei in pericolo la gente con cui entrerei in contatto

Lei non ha pensato di andare a Mosca e descrivere quello che sta accadendo?
«Volevo farlo. Poi ho pensato che sicuramente verrei intercettato e metterei in pericolo la gente con cui entrerei in contatto. Al momento ho accantonato il progetto».

Navalnyj a parte, e con i benefici del dubbio, ha nuovi progetti in arrivo?
«Lo dico senza ironia. Di fronte ai grandi avvenimenti mondiali a volte mi sento come disarmato. Preferirei scrivere di cose più piccole. Ad esempio la storia di mio padre».

In questa occasione è stato premiato non per un solo libro, ma per l’intera sua opera. Che ha soggetti molto diversi. Di tutti i libri che ha scritto, ce n’è qualcuno al quale è particolarmente legato, e perché? E invece ce n’è uno di cui non è più convinto, per come lo ha scritto?
«Quello che mi sta più a cuore è Vite che non sono la mia, il mio libro forse più toccante. Quanto ai lavori che non mi convincono tanto, sono quelli che scrivevo da giovane, i romanzi che vengono prima de La settimana bianca. Ma, quelli, il pubblico non li conosce nemmeno. Persino le case editrici li hanno risparmiati». E Carrère scoppia in una risata.

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