L'intervista

Liliana Segre: «Mai parole d’odio contro chi ci respinse alla frontiera, ma quel ricordo causa ancora dolore»

L'8 dicembre 1943, 80 anni fa, la famiglia della senatrice a vita italiana non fu accolta in Svizzera dove cercava riparo per sfuggire alle persecuzioni dei nazifascisti contro gli ebrei
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Dario Campione
07.12.2023 06:00

Sono trascorsi 80 anni da quando, l’8 dicembre 1943, Liliana Segre, il padre Alberto e gli anziani cugini Giulio e Rino Ravenna furono arrestati dai militi della Guardia di Finanza a Selvetta di Viggiù (Varese) dopo essere stati respinti dalle guardie di confine elvetiche. Il cammino verso la Svizzera che attraversava i boschi della Valceresio, lo stesso sul quale si muovevano i contrabbandieri e tutti i profughi che speravano di salvarsi dai persecutori nazifascisti, è diventato un “Sentiero del silenzio”. Un percorso della memoria, inaugurato domani proprio nel ricordo del dramma vissuto dalla famiglia di Liliana Segre.

Senatrice Segre, per prima cosa la ringrazio di aver accolto l’invito del Corriere del Ticino a ricordare, ancora una volta, il momento sicuramente più drammatico e tragico della sua vita.
«Sono trascorsi 80 anni, ma il ricordo di quella giornata è indimenticabile perché ha segnato un momento cruciale: nella mia vita di tredicenne; in quella di mio papà Alberto, che aveva allora 44 anni ed era quindi un uomo ancora giovane; e dei due anziani cugini di mia nonna, Giulio e Rino Lazzaro Ravenna, che si erano aggregati all’ultimo momento al nostro gruppo in modo autonomo. La notte precedente non avevamo dormito. Eravamo rimasti nascosti nella casupola di alcuni contrabbandieri che facevano questo di lavoro, portare di là oppure no, a seconda dei casi, le persone in fuga».

Vi muoveste all’alba?
«Sì, all’alba. Carichi di valigie, perché ancora credevamo fosse giusto restare attaccati alle cose. Erano proprio vecchie valigie, e non sacchi da montagna. Tutti ne avevamo almeno una. E cominciammo l’attraversata, lungo il sentiero che portava dalla casupola dei contrabbandieri fino all’inizio di una cava di sassi. Un luogo impervio, nel quale si doveva saltare da un masso all’altro. A un certo punto, quel cratere si aprì su un dirupo. I contrabbandieri si fermarono, ci dissero che eravamo arrivati. Oltre, in fondo, c’era la Svizzera. Con le nostre valigie non avremmo potuto affrontare la discesa, ma questi spaventosi soggetti le presero e le buttarono giù dalla cava di sassi. Intanto cominciava a piovere. Ed era molto freddo».

Che cosa successe, dopo?
«Vedevamo le valigie in fondo al dirupo, qualcuna si era aperta e ancora ci preoccupavamo degli oggetti che avevamo portato con noi, senza capire che non si fugge con le valigie, non si espatria così. Su quel sentiero avremmo dovuto portare niente o quasi niente. Era una situazione assurda. Oltretutto, scendere da quella distesa irregolare di massi fu un grande problema. Io e mio papà potevamo cavarcela, sia pure a fatica. Ma i due anziani Ravenna non ce l’avrebbero mai fatta da soli, per cui mio papà li prese in spalla uno alla volta e li portò giù. Era molto stanco, preoccupato, pessimista. Quel passaggio si stava rivelando tragico. Comunque, alla fine tutti e quattro fummo fuori dalla cava e in parte rinfrancati. Riprendemmo la strada e mi ricordo che, subito dopo la cava, c’era un fitto boschetto. Dentro questo boschetto, dopo un po’ che camminavamo, incrociammo due soldati che ci sembrarono tedeschi e invece erano svizzeri. Avevamo confuso le divise, che erano simili».

A quel punto, avete pensato di essere in salvo.
«Sì, quando capimmo che erano svizzeri fummo felici, ci abbracciammo gli uni agli altri. “Siamo arrivati”, “Siamo in Svizzera”, dicevamo. Ce l’avevamo fatta, noi che pure eravamo così cittadini, così poco avvezzi alla montagna. Eravamo riusciti nel miracolo di scappare».

Invece le cose andarono diversamente.
«Mi accorsi subito che qualcosa non andava. I soldati furono freddi con noi, distaccati. Mi ricordo benissimo il contrasto tra la nostra felicità, che era sfociata addirittura nelle lacrime, e il gelo di questi due uomini in divisa, i quali probabilmente già sapevano. Furono loro a guidarci all’uscita del boschetto; da lì, prendemmo una strada che ci condusse ad Arzo. Entrammo in paese che era ancora presto. Vedevamo le donne del borgo che andavano a prendere il latte, tutte avevano il recipiente che allora si usava per le mungiture. A me, bambina, sembravano straordinari personaggi di un paese delle fate. Ma in realtà voltavano la faccia dall’altra parte, non ci salutavano, facevano finta di non vederci. Anche questo era strano, ma ancora non ci preoccupammo».

Poi che cosa accadde?
«I soldati ci portarono in un edificio che fungeva, credo, da comando di polizia. E lì ci fecero sedere in un’anticamera. Stemmo in silenzio per ore. Silenzio totale. Nei nostri confronti c’era un disinteresse assoluto. I militari entravano e uscivano, camminavano avanti e indietro, ma nemmeno ci guardavano. Passavano le ore e non succedeva niente. Fino a quando, attorno all’una, senza aver ricevuto qualcosa da mangiare o da bere, fummo finalmente con malagrazia introdotti nell’ufficio del comandante. Non so chi fosse, non so neanche il nome. Non me ne sono mai interessata. Non solo per i miei 13 anni, ma perché ho preferito il silenzio. Quel sentiero l’ho percorso fino in fondo, senza parole».

Era uno svizzero tedesco. Ci accolse in malo modo, disse che eravamo imbroglioni, che mio padre, data l’età che aveva, non voleva fare il militare ed era scappato per non andare in guerra. Non teneva in alcuna considerazione il fatto che gli ebrei, nella Repubblica Sociale, erano stati dichiarati nemici

Che cosa vi disse l’ufficiale che quella mattina comandava le guardie di frontiera ad Arzo?
«Era uno svizzero tedesco. Ci accolse in malo modo, disse che eravamo imbroglioni, che mio padre, data l’età che aveva, non voleva fare il militare ed era scappato per non andare in guerra. Non teneva in alcuna considerazione il fatto che gli ebrei, nella Repubblica Sociale, erano stati dichiarati nemici, anche se nati a Milano o in Lombardia e italiani da generazioni. Come noi. Mio papà, inoltre, era stato ufficiale dell’Esercito nella Prima Guerra mondiale e tempo addietro aveva ricevuto il libretto di ufficiale in congedo, cosa che l’aveva molto umiliato. Nella mia famiglia non eravamo religiosi, eravamo piuttosto atei. Prima di tutto, per noi, veniva l’italianità. Certo, sapevamo di essere ebrei, ma nessuno di noi era praticante».

L’ufficiale, però, non volle sentire ragione.
«Fu sprezzante. Ci trattò da gente che voleva andare in Svizzera per mangiare pane e burro mentre dall’altra parte del confine c'era la guerra. Accusò mio papà di essere praticamente un disertore. La sua ignoranza della realtà era profonda. Nulla fu possibile per fargli cambiare idea. Rammento molto bene quel momento: passammo dalla tranquilla felicità di aver raggiunto la Svizzera alla disperazione totale. Io, che pure sono sempre stata e sono tuttora una persona tranquilla, molto poco teatrale e molto poco espansiva, mi buttai ai piedi di questo ufficiale. Lo pregai, piangendo, che assolutamente ci tenesse. Gli dissi che cosa ci sarebbe successo se ci avesse respinto, che saremmo andati incontro alla morte. Ma lui mi allontanò da sé con la gamba, come si fa quando un cane ti salta addosso».

E dopo?
«In quel momento mio papà si arrabbiò da matti, urlando disse che dovevano rivedere la decisione, che era un loro obbligo morale. Insomma, insistette moltissimo con il capitano o tenente, non so quale grado avesse, affinché telefonasse, si informasse meglio della situazione. E non ci respingesse. Gli ricordò pure che la Svizzera, fino a quel momento, aveva accolto tante persone. L’ufficiale, sempre con malagrazia, ci lasciò di nuovo soli e andò a telefonare. Era nella stanza vicina, parlava in tedesco e mio papà intuiva qualcosa. Credette di capire che forse consigliavano di tenere almeno me. Il comandante tornò dopo cinque minuti, sempre di cattivo umore. E confermò quanto mio padre aveva immaginato, vale a dire che avrebbero potuto accogliere me, ma non gli altri. Io, naturalmente, rimasi aggrappata a mio padre. Non lo avrei mai lasciato, per nessun motivo. A parte che l’affermazione dell’ufficiale non era neanche sicura, io non sarei mai rimasta da sola».

Per una bambina di 13 anni sarebbe stato un trauma enorme.
«Non ho pensato mai nemmeno per un istante di farlo. Con mio papà non ci siamo lasciati fino all’ultimo minuto e non ci siamo lasciati neanche adesso. Anche se ho 93 anni, e nonostante io abbia avuto un amato marito, tre figli adorati e tanti nipoti, mio padre rimane la figura più importante della mia vita, una persona speciale. Anche in questo caso, è meglio usare il silenzio che commentare la proposta che ci fecero quel giorno».

Fummo riaccompagnati al confine. Ci scortavano due soldati che sghignazzavano e ci puntavano contro la baionetta. Pioveva. Quando arrivammo nella terra di nessuno, le guardie si allontanarono. Non le avevamo più addosso

La posizione irremovibile dell’ufficiale in comando delle guardie di frontiera fu, di fatto, l’inizio della fine.
«Fummo riaccompagnati al confine. Ci scortavano due soldati che sghignazzavano e ci puntavano contro la baionetta. Pioveva. Quando arrivammo nella terra di nessuno, le guardie si allontanarono. Non le avevamo più addosso. Ci fu una specie di consiglio di famiglia, durante il quale pregai, supplicai di passare la notte lì, all’aperto e di provare ad attraversare la frontiera l’indomani, magari da un’altra parte. I due cugini Ravenna erano affranti, zuppi di pioggia. Il pessimismo e lo sconforto di mio papà erano tali per cui non sapeva che cosa decidere. La mazzata ricevuta poche ore prima era stata troppo forte. Poco lontano, c’era un grande cancello attaccato alla rete che divideva i due Stati. E così io dissi: “Vado lì, tento di aprirlo. Torniamo in Italia e riproviamo da un’altra parte. Corsi avanti. Ero una ragazzina di tredici anni, avevo ancora le forze per farlo. E mentre loro mi venivano dietro in una processione che aveva le sembianze di un funerale, io provai ad aprire il cancello. Non ci riuscii. Era chiuso. Ma mentre lo scuotevo scattò una suoneria».

Era collegato a un allarme.
«Purtroppo, sì. Subito giunsero due finanzieri che, trovandoci lì sul confine, ci arrestarono. Non erano felici di farlo, devo dire la verità. Mostrarono un atteggiamento di pietà. Ma non potevano fare altro. Poco lontano, c’era una caserma di nazisti i quali, a detta di quegli stessi finanzieri, sorvegliavano tutta la frontiera. In quel momento mio papà, lì, sul crinale della montagna, buttò via nel fango i suoi adorati francobolli rari».

Un segno di resa.
«Mio papà era un appassionato filatelico. Non commerciava in francobolli, di mestiere era un piccolo imprenditore tessile. Ma era anche un collezionista, e aveva deciso di portare in Svizzera alcune serie molto importanti dei suoi francobolli perché era sicuro che altri filatelici, là dove fossimo andati, li avrebbero apprezzati e comprati, permettendoci così di mantenerci. Invece, in quel frangente, li buttò nel fango. Fu la visione di un uomo vinto, un uomo che non aveva più speranze, tanto da gettare via quei tesori ai quali aveva dedicato tante serate e parecchi soldi».

Dopo il vostro arresto, che cosa successe?
«Ci portarono in una caserma. Il nostro cammino del silenzio finì così. Ma all’incontrario. Non credo che si possa aggiungere molto. Quali parole potrei usare, ottant’anni dopo, per commentare quel sentiero? Nessuna».

Lo capisco. Talvolta, però, più delle parole possono valere i fatti. Pochi mesi fa, nel discorso con cui ha aperto la nuova Legislatura del Senato italiano, lei stessa ha ricordato il valore dell’esempio, il peso delle scelte che si compiono.
«Voglio dirle questo. Io ho fatto la mia vita, sono l’unica sopravvissuta della mia famiglia e ho imparato a vivere, nonostante tutto. Ho avuto la fortuna di incontrare molto presto, quando avevo soltanto 18 anni, quello che poi, per tantissimi anni, è stato mio marito. Con lui ho formato una famiglia, ho avuto figli, nipoti, una normalità molto amata e molto goduta da me. E poi a un certo punto, dopo anni e anni, sono diventata testimone della Shoah. Perché l’ho fatto? Forse proprio a causa di quel respingimento, che ha significato prigioni, deportazioni, Auschwitz, la morte in ogni minuto. Mentre io sono miracolosamente sopravvissuta. L’ho fatto perché non ho mai voluto essere come loro, come gli assassini. Ho ripudiato l’odio e la vendetta: nelle mie testimonianze, così come nelle parole con cui mi è accaduto di commentare i fatti più recenti, tento sempre di predicare l’amore, anche se qualche volta sembra non servire. Anche per questo, di fronte alle manifestazioni di astio, di rancore, ho spesso l’impressione di essere vissuta invano».

Credo che lei non sia vissuta invano, tutt’altro. Lei ha detto che bisogna scolpire nel cuore la storia per non dimenticare. Ecco, le sue parole servono a questo, a incidere cioè nel cuore di ciascuno il ricordo. La sua testimonianza è fondamentale per fare in modo che non si ripetano gli stessi, tragici, errori del passato.
«Guardi, io per trent’anni, le ripeto, ho fatto la testimone. Ovunque, soprattutto nelle scuole. Sono venuta pure a Lugano, ma sono stata anche molto più lontano, fino a San Francisco. E l’ho fatto con tutta me stessa, pure se ogni volta mi costava tantissimo. Perché il ricordo di cose tristi, di una storia in cui non c’è un solo momento bello, è difficile, penoso. Però l’ho fatto, come se fosse una missione. Io, che ero sopravvissuta, non potevo esimermi. Adesso, guardando all’evolversi della storia, a come vanno le cose, non mi sento molto ottimista. Sono sincera. Temo l’oblio, la dimenticanza. Quando anche i nostri figli, i figli dei sopravvissuti, non ci saranno più, la Shoah sarà un grido sempre più fievole, una riga in un libro di storia. E dopo, neanche quello. Nulla più».

Secondo me è importante soprattutto studiare, conoscere, accrescere la propria cultura, perché se uno studia e approfondisce le cose ha una ricchezza che non è materiale quanto morale

Non pensa che sia una visione troppo negativa?
«Ma lei lo vede come vivono i giovani di oggi? Tutti quanti? La storia non conta più, non si affrontano i problemi in prospettiva. Ciò che conta è soltanto il momento attuale. Quello che si vive istante per istante. Sempre collegati al telefonino. Certo, ci sarà un’élite più avvertita, attenta alla storia. Ma sarà sempre meno ampia, temo».

È vero che purtroppo, come dire, l’oggi sembra prevalere sempre su ogni altra dimensione temporale. Tuttavia, volevo tornare a una cosa che lei ha detto e di cui ha fatto anche il titolo di un libro, ovvero che “La memoria rende liberi”. Conoscere la storia è necessario per essere cittadini consapevoli e, appunto, più liberi. Credo che il suo esempio, le sue parole, insegnino proprio questo: il valore della libertà, della capacità di essere consapevoli e quindi più liberi nelle decisioni, nelle scelte, nel modo di essere cittadini.
«Sì, le do ragione in questo. Io sono ormai vecchia, ma mi sento sempre, prima di tutto, una donna di pace. E, per quello che riguarda il mio essere più profondo, io sono libera. Questa cosa ho sempre cercato di trasmetterla, soprattutto là dove ho avuto ragazzi che mi ascoltavano o quando mi è successo di parlare in pubblico. Quando ho scritto il libro cui lei ha fatto riferimento, con Enrico Mentana abbiamo studiato il titolo sapendo che sarebbe stato importante, come ogni titolo in editoria. Per me è stato così: dal momento che anch’io ho trovato la forza di testimoniare la Shoah, la memoria mi ha reso più libera, perché prima ero schiava di questi tragici ricordi. E questo dava un’impronta negativa alla mia vita. Le confesso che in casa mia c’erano tanti tabù: mio marito e i miei figli sapevano che avevo paura dei cani, del fuoco, o che rimanere chiusa in un posto mi procurava ansia, mi precipitava in una depressione di cui ho sofferto per anni. Quando poi sono riuscita a fare della memoria uno strumento educativo, allora mi son sentita libera».

Volevo solo chiederle un’ultima cosa, non prima di averla ancora ringraziata per l’emozione che il suo racconto è in grado di suscitare. Se lei dovesse indicare alle future generazioni due o tre parole importanti, da portarsi appresso, che cosa suggerirebbe? Mi pare di capire che libertà sarebbe sicuramente una di queste parole.
«Ma vede, non è così facile ridurre sempre tutto a pochi concetti. Secondo me è importante soprattutto studiare, conoscere, accrescere la propria cultura, perché se uno studia e approfondisce le cose ha una ricchezza che non è materiale quanto morale, può spaziare praticamente ovunque con la propria mente. Poi, in estrema sintesi, ai più giovani direi di non odiare. Mai. Nel Senato italiano sono la presidente di una commissione che ha come obiettivo il “Contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza”. Ecco, questo cerco di mettere in pratica, questo è il mio profondo desiderio: combattere contro l’incitamento all’odio».

L’odio che ha segnato la sua esistenza e quella della sua famiglia.
«Sì, perché la tragedia della mia vita è dovuta all’odio di uomini contro uomini la cui sola colpa era di essere nati».