Sydney Sweeney e le pubblicità proibite

Negli anni Ottanta e Novanta lo spot dei jeans American Eagle con protagonista Sydney Sweeney non avrebbe fatto notizia, nel 2025 è diventato un caso internazionale con accuse di ogni tipo, su tutte quella di oggettificazione della donna. Per questa e per altre vicende analoghe la domanda è sempre la stessa: è la pubblicità a non essere al passo con i tempi oppure esiste una minoranza ipersuscettibile che blocca la libertà di espressione?
Il caso Sweeney
La campagna di American Eagle «Sydney Sweeney Has Great Jeans», un gioco di parole tra «jeans» e «genes» (geni), ormai sta vivendo di vita propria, paradossalmente (ma non troppo) grazie ai suoi detrattori. Nello spot per così dire incriminato l’attrice, bionda e con gli occhi azzurri, si infila un paio di jeans spiegando come i geni determinino caratteristiche come il colore dei capelli o degli occhi, concludendo con un ironico «i miei jeans sono blu». Un riferimento alle campagne di Calvin Klein degli anni Ottanta, colto da noi che ce le ricordiamo, ma per qualcuno un messaggio razzista, con richiami nientemeno che all’eugenetica. Dai tweet il dibattito si è spostato sui media tradizionali, con il solito teatrino: cultura woke sì, cultura woke no, eccetera. Certo è che soltanto due anni fa questo spot sarebbe stato ritirato dopo le prime proteste, adesso genera polemiche ma rientra nel girone del «purché se ne parli». Il vento sta cambiando direzione, o forse semplicemente si tratta solo di pubblicità e non vale la pena di perdere tempo ad analizzarle.
I tempi di Brooke Shields
La pubblicità con Sweeney è come detto prima un po’ una citazione di quella celeberrima di Calvin Klein nel 1980, quando una Brooke Shields allora quindicenne ma già con alle spalle i successi di Pretty Baby e Laguna blu, sdraiata sul pavimento si infilava i jeans dicendo frasi come «Il segreto della vita è nascosto nel codice genetico» e «Vuoi sapere cosa c’è tra me e i miei Calvins? Niente». Il doppio senso e l’età di Shields scatenarono l‘inferno e alcune emittenti rifiutarono di trasmettere lo spot, accusato di essere troppo sessualizzato. Si può quindi dire che nei rimpianti anni Ottanta questo tipo di spot veniva censurato, o comunque scoraggiato, più di quanto avvenga oggi, ma non per motivi politici: la presunzione era che i grandi media si rivolgessero alle famiglie e che quindi quel linguaggio fosse inappropriato, al di là di ogni considerazione morale o moralistica.
Gli anni Novanta di Anna Falchi
Per molti versi gli anni Novanta sono stati una prosecuzione degli Ottanta, con qualche possibilità tecnica in più. Nella pubblicità una certa immagine della donna fu addirittura estremizzata, senza secondi livelli di lettura. In questo senso un simbolo è di sicuro Anna Falchi, i cui manifesti per l’intimo Infiore sono ben noti agli automobilisti ticinesi del 1995 e dintorni, in direzione San Siro: con tutto il rispetto per lo spot per la Banca di Roma che aveva girato sotto la guida di Fellini, la Anna Falchi che tutti ricordano è questa. Le immagini ammiccanti di Falchi, all’epoca al top della popolarità dopo avere presentato Sanremo con Baudo e per la storia con Fiorello, furono accusate di oggettificare il corpo femminile, riducendolo a mero strumento di vendita. Pur non raggiungendo il livello di scandalo delle campagne internazionali, queste pubblicità alimentarono un dibattito sull’uso della sensualità nella comunicazione commerciale, soprattutto in un Paese come l’Italia di Berlusconi, dove la televisione commerciale stava ridefinendo i codici un po’ di tutto, al di là delle opinioni politiche.
Michelle
Un altro purissimo caso anni Novanta fu quello della campagna Roberta, marchio di biancheria intima, un caso che lanciò la carriera di una giovane Michelle Hunziker, spinta da quello che con un triste eufemismo veniva definito «Lato B». Gli spot e i cartelloni pubblicitari mettevano in primo piano il fondoschiena della ragazza nata a Sorengo, allora agli esordi, in pose che lasciavano poco all’immaginazione. La campagna fu in ogni caso un successo commerciale, ma fu accusata di ridurre la donna a un oggetto di desiderio. Polemiche che coinvolsero anche Hunziker, ma che le hanno alla fine portato bene, senza contare il fatto che si sono viste un milione di pubblicità più volgari di questa, anche nell’era del politicamente corretto.
American Apparel e FKA twigs
Con l’inizio del millennio questo tipo di pubblicità è calato di numero, ma non scomparso. In campo internazionale un caso degno di nota è quello di American Apparel: le sue campagne, spesso con modelle in pose esplicite e contesti minimalisti, furono accusate di sessismo e di promuovere una cultura che iniziò a essere definita tossica. Più recente il caso di FKA twigs, protagonista di una campagna Calvin Klein del 2023 che fu inizialmente vietata nel Regno Unito per presunta oggettificazione. L’immagine mostrava la cantante in una camicia aperta, con il corpo parzialmente esposto. Dopo le proteste di FKA twigs, che accusò l’autorità pubblicitaria di doppi standard, il divieto fu parzialmente revocato, ma il caso riaprì il dibattito sull’uso del corpo femminile nella moda.
E la Svizzera?
Insomma, lo schema è da decenni noto in tutto il mondo e può essere così sintetizzato: basta che se ne parli e tutti sono contenti, le aziende che vedono il proprio nome ovunque e gli autoproclamati femministi che vedono in evidenza le proprie opinioni grazie a una donna famosa. Poi ogni Paese ha i suoi casi e la Svizzera non fa eccezione, avendo avuto situazioni in cui si è andati al di là della oggettificazione, come la campagna di Philipp Plein che secondo molti, fra violenza e sessismo, evocava il tema del femminicidio e che nel 2018 scatenò proteste soprattutto in Ticino. Andando più indietro troviamo una pubblicità che in Italia è scivolata via e in Ticino ha fatto invece molto discutere: ci riferiamo a quella di Dolce & Gabbana del 2007, diretta da Steven Klein, che mostrava una donna in una posa sottomessa circondata da uomini, evocando immagini di violenza sessuale. Più leggero il caso del «fidanzato distratto» della Bahnhof: l’immagine memizzata, che mostra un uomo che si gira a guardare una donna mentre ignora la sua fidanzata, in Ticino comunque ha fatto discutere. Meno dello spot Intimissimi Uomo con protagonista Diletta Leotta, nonostante il corpo fosse appunto quello degli uomini. Secondo uno studio dell’associazione Protocole Gisler, nel 2023 circa il 50% delle pubblicità svizzere conteneva stereotipi di genere, spesso legati a prodotti come cioccolato, caffè o yogurt. Le donne venivano rappresentate come «golose silenziose», un archetipo che rafforza l’immagine della donna passiva. Di sicuro non ha contribuito alla causa femminile la campagna di Lugano Turismo del 2018, che utilizzava immagini del corpo femminile per promuovere la regione. Ma nel 99% dei casi la volgarità è in chi guarda, non in un corpo.