L'intervista

«Tanti dubbi sulle stelle Michelin, e molti chef fanno solo scena»

Nel suo libro «Dietro le stelle», il «critico mascherato» Valerio Massimo Visintin scoperchia il mondo della ristorazione: «C'è tanto non detto e poca trasparenza, i giornalisti ormai fanno solo marchette»
Michele Montanari
17.12.2022 10:00

 

Indossa un passamontagna nero, un cappello, occhiali scuri e, quando si parla di cucina, i suoi giudizi sono tra i più temuti in assoluto. È Valerio Massimo Visintin, il critico gastronomico mascherato del Corriere della Sera. Il suo volto è un mistero e, una volta seduto al tavolo del ristorante, diventa uno dei tanti signor nessuno. Libero di scrivere e affilare le lame. Recentemente il giornalista ha pubblicato il libro Dietro le stelle. Il lato oscuro della ristorazione italiana (Mondadori, 2022), in cui scoperchia il leggendario vaso di Pandora e non risparmia nessuno. Chef, giornalisti, food blogger e influencer: finiscono tutti nel tritacarne. E non solo, il dipinto del mondo della ristorazione italiana non ne esce benissimo, tra infiltrazioni mafiose, conti in rosso, lavoro in nero, marchette e premi farlocchi. Lo abbiamo intervistato.

La copertina del libro di Visintin. 
La copertina del libro di Visintin. 

Domanda da un milione di dollari: cosa c’è dietro l’assegnazione delle stelle Michelin?
«C’è tanto mistero: non sappiamo nulla, o quasi. La Michelin non dice niente sui criteri di selezione e non conosciamo la prassi con cui visita i ristoranti. Sappiamo solo che ci sono 90 ispettori che vanno in giro per l’Europa, viaggiano e fanno recensioni a un numero spropositato di ristoranti. Facendo un rapido calcolo dei ristoranti che entrano nella guida - supponendo che ce ne sia una quota che non vale l’onore di quelle pagine - i conti non tornano assolutamente. Questa è un’opacità che non viene mai affrontata da nessuno, ma il calcolo è di circa 400 ristoranti testati da ogni ispettore. Quindi dobbiamo pensare che gli ispettori non possano ammalarsi mai o prendere ferie. Sono cifre che non stanno in piedi. C’è molto non detto e i dubbi sull’assegnazione delle stelle sono legittimi, ma anche quelli sulla composizione della guida».

Quali sono questi «dubbi legittimi»?
«Beh, ad esempio, possiamo chiederci come mai gli sponsor della cosiddetta alta cucina siano sempre gli stessi. Su tutti la prevalenza è di Nestlé, con l’acqua San Pellegrino e l’acqua Panna. Il fatto che tutte le manifestazioni legate alla cucina di altissima fascia siano sostenute da questo unico sponsor, qualche legittimo sospetto lo può insinuare. Vien da credere che attraverso l’acquisto di quei due marchi di acqua ci sia qualche possibilità in più di ottenere un riconoscimento. Poi c’è di mezzo anche The Fork, anch’essa coinvolta in tutte queste sponsorizzazioni. The Fork è il braccio commerciale di TripAdvisor, quindi, anche lì, qualche sospetto può insinuarsi. Non c’è nessuna certezza, però uno strumento come la guida Michelin non può essere così oscuro: questa forte mancanza di trasparenza dovrebbe essere sufficiente per metterlo in discussione, invece questo non accade».

I giornalisti sono pagati due soldi e sono portati a farsi regalare pranzi, cene e anche bustarelle sottobanco

Nel suo libro punta il dito contro i giornalisti…
«I giornalisti sono tra i principali colpevoli, dietro solo agli editori, che non li pagano abbastanza. Chiaramente se un critico gastronomico è pagato due soldi, non ha le armi per difendersi da eventuali offerte corruttive, perché poi è di questo che si tratta: corruzione. Se vengono pagati poco saranno portati a farsi regalare pranzi, cene e anche bustarelle sottobanco. Questo è quello che accade nella realtà della critica enogastronomica. Sicuramente in quella italiana. Però anche alla luce del sole succedono cose che non vanno bene e che sono contrarie alla deontologia professionale».

Ad esempio?
«Il magazine internazionale Identità golose, che è un colosso e ha il sito registrato presso l’ordine dei giornalisti, nei suoi articoli fa delle marchette clamorose. Le fa alla luce del sole, perché ormai c’è un senso di impunità che gli permette di fare pubblicità occulta. Neanche tanto occulta, a dire il vero. Sul finale di una critica gastronomica, che dovrebbe essere frutto dell’opinione personale, si trovano pubblicità di ogni tipo, dal caffè al forno usato per la pizza. Ormai sono contenitori di pubblicità. E la stessa cosa accade quando le guide gastronomiche fanno le presentazioni infarcite da decine di premi speciali, ognuno con il suo sponsor. C’è qualcosa che non va in questo meccanismo, sembra che la guida venga prodotta a beneficio degli sponsor, o degli spazi che possono essere riempiti dai danari degli sponsor. Le guide ormai vendono pochissime copie e per ripagare le spese vendono l’anima al diavolo».

Lei abolirebbe le stelle Michelin?
«Assolutamente sì. I ristoranti non sono atleti, non andrebbero messi in competizione. Rimanendo sullo sport, poi, a volte è come paragonare discipline diverse: chi fa la cucina creativa non compete con chi fa quella molto tradizionale. Sono due discipline diverse, è inutile metterle in competizione: possono essere entrambe eccellenti, ma la guida Michelin premia solo la cucina creativa, portando il concetto di creatività fino all’estremo. Lo chef ogni anno deve inventare piatti nuovi, altrimenti non mantiene la stella o non guadagna quella successiva. Non è nella natura della creatività umana produrre continuamente novità. Non succede in nessuna disciplina. Ci sono pittori che dipingono lo stesso quadro per molti anni, o scrittori che tacciono per molto tempo e poi ritornano sulla scena. La creatività è un battito d’ali dell’intelligenza, non è un impegno coatto».

Quindi la guida Michelin andrebbe ridimensionata?
«Andrebbe ricondotta nell’alveo della sua reale consistenza: è una guida, pure piena di errori. Ci sono schede che si ripetono uguali da anni: una addirittura riporta le stesse parole da 19 anni. E non solo, nel 2015 è stata assegnata la stella a uno chef defunto. Insomma, è una guida fatta con non troppa accuratezza editoriale e ci sono molti dubbi su come viene composta. Basterebbe tutto ciò per attenuare la credibilità di questo strumento. Invece le viene attribuita un’alta reputazione, che non merita, per motivi poco chiari, ma che si possono intuire. È una guida come tante, fatta pure peggio di molte altre».

Molti chef hanno perso l’attaccamento alla realtà dei fatti, perché non credo che, se non in casi specialissimi, siano dei grandi artisti.

E gli chef? In molti criticano i cuochi stellati che si atteggiano a professori o fanno le star in TV…
«Queste figure fanno male all’ambiente, ma è tutta colpa di noi giornalisti, che abbiamo creato dei miti. Abbiamo creato personaggi che servono a far generare quattrini ai grossi sponsor e servono, forse, a elevare di qualche gradino la posizione di chi li giudica. È chiaro che se sei il critico degli esseri umani che cucinano vali 6, mentre se sei il critico di un mito assoluto, di un artista senza pari, allora anche tu non vali più 6, ma 8. In questo modo aumenta la quotazione di chi scrive. È un meccanismo perverso, una patologia. Da parte loro, molti chef hanno perso l’attaccamento alla realtà dei fatti, perché non credo che, se non in casi specialissimi, siano dei grandi artisti. E il retroterra culturale di quasi tutti loro è piuttosto basso. Ma fanno bene a sfruttare l’onda, perché i ristoranti stellati non funzionano dal punto di vista economico».

Non sono macchine da soldi come si potrebbe pensare?
«No, non sono sostenibili economicamente. Costano tantissimo agli imprenditori e incassano troppo poco. Sono tutti in rosso, funzionano solo con l’indotto di pubblicità, sponsorizzazioni, passaggi televisivi e banqueting. Oppure con il sostegno di catene alberghiere che possono permettersi di andare un po’ in rosso col ristorante perché poi bilanciano quella perdita con altri incassi. Gli chef stellati fanno una vita tosta a livello finanziario. Infatti, capita che qualcuno ceda. Ci sono cuochi che cambiano sede, perché in proprio non possono sopravvivere e allora si attaccano a imprenditori che, pur avendo altri interessi, investono nell’alta cucina. Oppure si affidano alle grandi catene alberghiere che possono sopportare perdite. Costa tantissimo quel tipo di cucina e, secondo me, non ha senso perderci ore e ore. Il valore della ricerca ha senso se comparato all’esito della ricerca stessa, ma questo non avviene quasi mai. Penso al pane che può stare in frigo per 30 giorni e si può mangiare dopo esser stato scaldato in forno a 200 gradi per 15 minuti. Costa quasi 18 euro al chilo, mentre a Milano il pane normale costa sugli 8 euro al chilo. Non è sostenibile, neanche dal punto di vista ecologico, dato che arriva dall’Abruzzo, va messo in frigo e poi scaldato. Queste sono follie totali».

Però i ristoranti stellati possono essere una bella esperienza da concedersi ogni tanto…
«Sì, indubbiamente sono un’esperienza, ma per chi ha i soldi. Ora c’è questa tendenza a proporre il menu degustazione, che costa meno di quello alla carta, ma ti tengono sotto sequestro per tre ore. A me è successo di dire: “È tardi, ora andiamo”, ma mi hanno tenuto in ostaggio perché mancavano ancora tre portate. Le cene ormai durano tantissimo. E stare a tavola così tanto non è neanche sano».

Chi sono gli chef che meriterebbero più attenzione? E quelli sopravvalutati?
«In Italia, gli chef con la stella rappresentano lo 0,1% del totale. Mi piacerebbe che si desse più attenzione a tutti gli altri ristoratori, che la stella non ce l’hanno e a cui magari non interessa neppure averla. Tutti quelli che lavorano all’insaputa della Michelin, insomma. Che solo a Milano sono 300 mila. Quelli sopravvalutati, invece, sono tanti. Spesso fanno molta scena, ma la sostanza è davvero poca. C’è persino uno chef, di cui parlo nel libro, che si veste con una tuta di latex lucente per creare i suoi piatti, roba quasi sadomaso. Uno che fa così andrebbe portato da uno specialista, ma non di gastronomia».