«Tanti dubbi sulle stelle Michelin, e molti chef fanno solo scena»
Indossa un passamontagna nero, un cappello, occhiali scuri e, quando si parla di cucina, i suoi giudizi sono tra i più temuti in assoluto. È Valerio Massimo Visintin, il critico gastronomico mascherato del Corriere della Sera. Il suo volto è un mistero e, una volta seduto al tavolo del ristorante, diventa uno dei tanti signor nessuno. Libero di scrivere e affilare le lame. Recentemente il giornalista ha pubblicato il libro Dietro le stelle. Il lato oscuro della ristorazione italiana (Mondadori, 2022), in cui scoperchia il leggendario vaso di Pandora e non risparmia nessuno. Chef, giornalisti, food blogger e influencer: finiscono tutti nel tritacarne. E non solo, il dipinto del mondo della ristorazione italiana non ne esce benissimo, tra infiltrazioni mafiose, conti in rosso, lavoro in nero, marchette e premi farlocchi. Lo abbiamo intervistato.
Domanda da un milione di dollari: cosa c’è
dietro l’assegnazione delle stelle Michelin?
«C’è tanto mistero: non sappiamo nulla, o
quasi. La Michelin non dice niente sui criteri di selezione e non conosciamo la
prassi con cui visita i ristoranti. Sappiamo solo che ci sono 90 ispettori che
vanno in giro per l’Europa, viaggiano e fanno recensioni a un numero spropositato
di ristoranti. Facendo un rapido calcolo dei ristoranti che entrano nella guida
- supponendo che ce ne sia una quota che non vale l’onore di quelle pagine - i
conti non tornano assolutamente. Questa è un’opacità che non viene mai affrontata
da nessuno, ma il calcolo è di circa 400 ristoranti testati da ogni ispettore. Quindi
dobbiamo pensare che gli ispettori non possano ammalarsi mai o prendere ferie.
Sono cifre che non stanno in piedi. C’è molto non detto e i dubbi sull’assegnazione
delle stelle sono legittimi, ma anche quelli sulla composizione della guida».
Quali sono questi «dubbi legittimi»?
«Beh, ad esempio, possiamo chiederci come mai
gli sponsor della cosiddetta alta cucina siano sempre gli stessi. Su tutti la
prevalenza è di Nestlé, con l’acqua San Pellegrino e l’acqua Panna. Il fatto
che tutte le manifestazioni legate alla cucina di altissima fascia siano
sostenute da questo unico sponsor, qualche legittimo sospetto lo può insinuare.
Vien da credere che attraverso l’acquisto di quei due marchi di acqua ci sia qualche
possibilità in più di ottenere un riconoscimento. Poi c’è di mezzo anche The
Fork, anch’essa coinvolta in tutte queste sponsorizzazioni. The Fork è il
braccio commerciale di TripAdvisor, quindi, anche lì, qualche sospetto può
insinuarsi. Non c’è nessuna certezza, però uno strumento come la guida Michelin
non può essere così oscuro: questa forte mancanza di trasparenza dovrebbe
essere sufficiente per metterlo in discussione, invece questo non accade».
Nel suo libro punta il dito contro i
giornalisti…
«I giornalisti sono tra i principali
colpevoli, dietro solo agli editori, che non li pagano abbastanza. Chiaramente se
un critico gastronomico è pagato due soldi, non ha le armi per difendersi da eventuali
offerte corruttive, perché poi è di questo che si tratta: corruzione. Se vengono
pagati poco saranno portati a farsi regalare pranzi, cene e anche bustarelle
sottobanco. Questo è quello che accade nella realtà della critica enogastronomica.
Sicuramente in quella italiana. Però anche alla luce del sole succedono cose
che non vanno bene e che sono contrarie alla deontologia professionale».
Ad esempio?
«Il magazine internazionale Identità golose,
che è un colosso e ha il sito registrato presso l’ordine dei giornalisti, nei
suoi articoli fa delle marchette clamorose. Le fa alla luce del sole, perché
ormai c’è un senso di impunità che gli permette di fare pubblicità occulta. Neanche
tanto occulta, a dire il vero. Sul finale di una critica gastronomica, che
dovrebbe essere frutto dell’opinione personale, si trovano pubblicità di ogni
tipo, dal caffè al forno usato per la pizza. Ormai sono contenitori di
pubblicità. E la stessa cosa accade quando le guide gastronomiche fanno le
presentazioni infarcite da decine di premi speciali, ognuno con il suo sponsor.
C’è qualcosa che non va in questo meccanismo, sembra che la guida venga
prodotta a beneficio degli sponsor, o degli spazi che possono essere riempiti
dai danari degli sponsor. Le guide ormai vendono pochissime copie e per
ripagare le spese vendono l’anima al diavolo».
Lei abolirebbe le stelle Michelin?
«Assolutamente sì. I ristoranti non sono
atleti, non andrebbero messi in competizione. Rimanendo sullo sport, poi, a
volte è come paragonare discipline diverse: chi fa la cucina creativa non
compete con chi fa quella molto tradizionale. Sono due discipline diverse, è
inutile metterle in competizione: possono essere entrambe eccellenti, ma la
guida Michelin premia solo la cucina creativa, portando il concetto di
creatività fino all’estremo. Lo chef ogni anno deve inventare piatti nuovi, altrimenti
non mantiene la stella o non guadagna quella successiva. Non è nella natura
della creatività umana produrre continuamente novità. Non succede in nessuna
disciplina. Ci sono pittori che dipingono lo stesso quadro per molti anni, o
scrittori che tacciono per molto tempo e poi ritornano sulla scena. La creatività
è un battito d’ali dell’intelligenza, non è un impegno coatto».
Quindi la guida Michelin andrebbe ridimensionata?
«Andrebbe ricondotta nell’alveo della sua
reale consistenza: è una guida, pure piena di errori. Ci sono schede che si
ripetono uguali da anni: una addirittura riporta le stesse parole da 19 anni. E
non solo, nel 2015 è stata assegnata la stella a uno chef defunto. Insomma, è
una guida fatta con non troppa accuratezza editoriale e ci sono molti dubbi su
come viene composta. Basterebbe tutto ciò per attenuare la credibilità di questo
strumento. Invece le viene attribuita un’alta reputazione, che non merita, per
motivi poco chiari, ma che si possono intuire. È una guida come tante, fatta pure
peggio di molte altre».
E gli chef? In molti criticano i cuochi stellati
che si atteggiano a professori o fanno le star in TV…
«Queste figure fanno male all’ambiente, ma è
tutta colpa di noi giornalisti, che abbiamo creato dei miti. Abbiamo creato
personaggi che servono a far generare quattrini ai grossi sponsor e servono,
forse, a elevare di qualche gradino la posizione di chi li giudica. È chiaro
che se sei il critico degli esseri umani che cucinano vali 6, mentre se sei il
critico di un mito assoluto, di un artista senza pari, allora anche tu non vali
più 6, ma 8. In questo modo aumenta la quotazione di chi scrive. È un
meccanismo perverso, una patologia. Da parte loro, molti chef hanno perso l’attaccamento alla realtà dei fatti, perché non credo che, se non in casi specialissimi, siano dei grandi artisti. E il retroterra culturale di quasi tutti loro è
piuttosto basso. Ma fanno bene a sfruttare l’onda, perché i ristoranti stellati
non funzionano dal punto di vista economico».
Non sono macchine da soldi come si potrebbe
pensare?
«No, non sono sostenibili economicamente.
Costano tantissimo agli imprenditori e incassano troppo poco. Sono tutti in
rosso, funzionano solo con l’indotto di pubblicità, sponsorizzazioni, passaggi
televisivi e banqueting. Oppure con il sostegno di catene alberghiere che
possono permettersi di andare un po’ in rosso col ristorante perché poi
bilanciano quella perdita con altri incassi. Gli chef stellati fanno una vita tosta
a livello finanziario. Infatti, capita che qualcuno ceda. Ci sono cuochi che
cambiano sede, perché in proprio non possono sopravvivere e allora si attaccano
a imprenditori che, pur avendo altri interessi, investono nell’alta cucina. Oppure
si affidano alle grandi catene alberghiere che possono sopportare perdite. Costa
tantissimo quel tipo di cucina e, secondo me, non ha senso perderci ore e ore. Il
valore della ricerca ha senso se comparato all’esito della ricerca stessa, ma
questo non avviene quasi mai. Penso al pane che può stare in frigo per 30
giorni e si può mangiare dopo esser stato scaldato in forno a 200 gradi per 15
minuti. Costa quasi 18 euro al chilo, mentre a Milano il pane normale costa
sugli 8 euro al chilo. Non è sostenibile, neanche dal punto di vista ecologico,
dato che arriva dall’Abruzzo, va messo in frigo e poi scaldato. Queste sono
follie totali».
Però i ristoranti stellati possono essere
una bella esperienza da concedersi ogni tanto…
«Sì, indubbiamente sono un’esperienza, ma per chi ha i soldi. Ora
c’è questa tendenza a proporre il menu degustazione, che costa meno di quello
alla carta, ma ti tengono sotto sequestro per tre ore. A me è successo di dire: “È tardi, ora andiamo”, ma mi hanno tenuto in ostaggio perché mancavano ancora tre portate. Le cene ormai durano tantissimo. E stare a tavola così tanto non è neanche sano».
Chi sono gli chef che meriterebbero più
attenzione? E quelli sopravvalutati?
«In Italia, gli chef con la stella rappresentano
lo 0,1% del totale. Mi piacerebbe che si desse più attenzione a tutti
gli altri ristoratori, che la stella non ce l’hanno e a cui magari non interessa
neppure averla. Tutti quelli che lavorano all’insaputa della Michelin, insomma.
Che solo a Milano sono 300 mila. Quelli sopravvalutati, invece, sono tanti. Spesso fanno molta scena, ma la sostanza è davvero poca. C’è persino uno chef, di cui parlo
nel libro, che si veste con una tuta di latex lucente per creare i suoi piatti,
roba quasi sadomaso. Uno che fa così andrebbe portato da uno specialista, ma
non di gastronomia».