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Il finale di Succession 4

La quarta e ultima stagione della serie targata HBO, liberamente ispirata alla vita di Rupert Murdoch, è stata un successo colossale in tutto il mondo: quali i motivi?
© HBO
Stefano Olivari
03.06.2023 15:15

La quarta ed ultima stagione di Succession è stata un successo colossale in tutto il mondo, in controtendenza rispetto alla fase di stanca che stanno attraversando le serie televisive. Lo scorso 28 maggio negli Stati Uniti è andato in onda l’episodio finale di Succession 4, fra poco sarà il turno del resto del mondo (in Svizzera su SRG SSR) e poi sarà finita davvero. Sì, perché, lo diciamo senza spoilerare troppo, il finale è tutt’altro che aperto ed andare avanti sarà difficile.

Rupert Murdoch

Come tutti sanno, anche i non devoti di questa serie della HBO, Succession è chiaramente ispirata alla vita e alla famiglia di Rupert Murdoch, soprattutto ai suoi figli in lotta per mettersi in luce con il padre e in prospettiva per prenderne il posto dopo la morte. Il protagonista, Logan Roy, con la sua Waystar-RoyCo (una NewsCorp ancora più diversificata, fra crociere e parchi tematici) è un magnate dei media di idee conservatrici ma pronto come imprenditore a venire a patti con politici di ogni tipo, mentre i figli sono tendenzialmente progressisti ma comunque disposti a tutto per il bene dell’azienda e per il loro personale. Differenza non da poco è che il vero Murdoch a 92 anni è ancora pimpante, in ogni senso, mentre Roy in Succession 4 muore e quindi la guerra per il controllo del gruppo esplode con una girandola di colpi bassi, cambi di alleanze e regolamenti di conti personali. L’ironia è il tratto caratteristico della serie, ma non sappiamo quanto ironica sia la rappresentazione dei velleitari figli: Connor che vuole diventare presidente degli Stati Uniti da indipendente, Kendall forse più lucido da tossicodipendente che da sano, Roman che vive di battute per mascherare i suoi problemi sessuali, Shiv che si sente sottovalutata fin da bambina e ha nei fratelli i primi avversari.

Doppio finale

Ovviamente non scriviamo come finisce Succession 4, per non rovinare il piacere e la tensione della visione. Anche perché il doppio finale girato dalla HBO non è certo alternativo: per gli sconfitti della situazione in uno finisce male e nell’altro malissimo, ma comunque in entrambi i casi la questione successione e soprattutto quella dell’entrata in scena di un nuovo aspirante proprietario della Waystar RoyCo hanno lo stesso tipo di sbocco. Certo è che la serie ideata da Jesse Armstrong è uno dei pochi casi di prodotto televisivo che esca di scena all’apice del successo per propria volontà, anche se il mai dire mai va sempre tenuto presente in un mondo a corto di buone idee. A parte Logan, i protagonisti rimangono tutti vivi anche se la storia principale si è conclusa. Molto più probabile, visto che la HBO non è un ente di beneficenza e che nella fiction non si butta via niente, che nascano spin-off incentrati sui singoli personaggi o un prequel sul giovane Logan Roy, non americano di nascita proprio come Murdoch (Roy però scozzese, non australiano).

Dallas

In molti, New York Times in testa, hanno attribuito il boom di Succession al fatto che racconti vicende di ricchi, ma ci sono migliaia di serie del genere e soltanto poche hanno fatti discutere fuori dall’orticello dei maniaci. E oggi far discutere è ancora più difficile di ieri, vista la frammentazione dell’audience: negli Stati Uniti l’attesissima prima puntata di Succession 4 ha avuto 3,1 milioni di telespettatori contro, per fare un esempio sempre citato, gli 83 milioni della puntata di Dallas in cui si rivelava chi avesse sparato a J.R. La citazione di Dallas, emblema degli anni Ottanta, non è casuale visto che fra le tante foto del vecchio Roy è bene evidenziata quella insieme a Ronald Reagan: certo quella era una ricchezza legata all’industria non all’intrattenimento, era il profondo Texas e non la Manhattan dei loft, nessuno poteva togliere i pozzi petroliferi agli Ewing mentre la politica determina l’esistenza stessa dei media. Altri tempi, televisione in chiaro contro pay-tv, eccetera, ma la costante è che la gente si appassiona a storie che in qualche modo fanno scattare l’identificazione. Se Logan Roy è un vincente, secondo certi parametri, nessuno dei suoi figli lo è e comunque tutti, anche il proprietario di una pizzeria, hanno problemi simili. 

La musica

Succession ha non soltanto una sigla bellissima, per capacità evocativa e coerenza con il contenuto (il rapporto con un padre duro e mitizzato, in sintesi), ma anche una delle migliori colonne sonore mai scritte per una serie televisiva. Merito dell’autore delle musiche originali, Nicholas Britell, ma anche del ritmo non troppo sostenuto degli episodi, che permette in molti casi alla musica di diventare decisiva, perché Succession non è soltanto storia ma anche stile, un po’ come avveniva con Miami Vice. Britell ha più volte spiegato che la musica poteva funzionare soltanto in questa serie e che ha iniziato a comporla dopo essere entrato psicologicamente nei suoi meccanismi shakespeariani: figli contro genitori, tradimenti e bassezze di ogni tipo, il bene che non vince e che comunque non esiste.

La scorrettezza

Con intelligenza e furbizia anche la quarta stagione riesce a dribblare il politicamente corretto, mettendo alla berlina certi comportamenti della destra (che nel network ATN dei Roy trovano cantori adeguati) usando però un linguaggio scorretto che è irresistibile e che in una serie di Netflix, ad esempio, sarebbe impossibile. Quasi nessun afroamericano in posizioni di potere, quasi nessuna donna, la maggior parte della ricchezza che si tramanda per via ereditaria, tutti che pensano al proprio tornaconto personale, gli imprenditori big tech (esilarante il viaggio in Svezia per conoscere Matsson) buzzurri che hanno avuto una buona idea, il giornalismo soltanto come strumento di potere, il servilismo (Greg il suo profeta) come primo mezzo per scalare il potere: in mezzo alle battute e alle esagerazioni macchiettistiche Succession rappresenta il mondo reale e non quello dei media preoccupati delle buone critiche.

 

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