Tommaso Buscetta e il potere della parola

«Il protagonista del mio film è un traditore rispetto a Cosa Nostra, al suo passato, alla famiglia a cui era affiliato, ma non è un traditore rivoluzionario. È un conservatore, non è un eroe, è un uomo coraggioso che compie una scelta dolorosa per salvare se stesso e i suoi figli da una morte certa». Con queste parole, all’ultimo Festival di Cannes dove il film era presentato in concorso, il regista italiano Marco Bellocchio ha inquadrato la vicenda narrata sullo schermo che - assoluta novità per Bellocchio - comprende anche numerose sequenze d’azione e raggiunge il suo apice nelle scene del maxiprocesso «messo in scena» nell’aula bunker del tribunale di Palermo nel 1984. Questo scenario - dove convivono, quasi gomito a gomito, imputati, magistrati, avvocati, forze dell’ordine e pubblico - si trasforma in un eccezionale palcoscenico per un grande attore come Tommaso Buscetta (magistralmente interpretato da Pierfrancesco Favino), il pentito per eccellenza, colui che seppe instaurare un rapporto privilegiato (e quindi sospetto) con il giudice Giovanni Falcone, assurgendo a simbolo di quel «pentitismo» che lo Stato italiano seppe favorire con l’elargizione di privilegi che in alcuni casi non evitarono però alla giustizia di prendere delle sonore cantonate.
Non nel caso di Buscetta però: lui sa tener testa con consumato mestiere alle subdole insinuazioni, alle sfacciate menzogne e ai colpevoli silenzi dei suoi ex compari, da Pippo Calò a Totò Riina. Il fulcro de Il traditore è quindi un vero e proprio saggio di «teatro processuale» che ha gli echi della tragedia greca e che dimostra ancora una volta come il regista di Vincere e di Buongiorno, notte sia ancora oggi - alla veneranda età di 80 anni (li compirà il prossimo 9 novembre) - uno dei pochissimi in grado di affrontare la realtà storica italiana recente, senza mai appiattirsi sulla dimensione cronachistica ma, al contrario, facendole assumere un’aura epica che va al di là del caso specifico. Il traditore non è quindi soltanto un film sulla storia di Tommaso Buscetta, ma - come molte altre opere di Bellocchio nel corso della sua ultracinquantennale carriera - un film sul potere e sui suoi oscuri e spesso imperscrutabili retroscena. Buscetta, uomo di potere nella mafia, si ritroverà a dover gestire nel modo migliore l’unico potere che gli rimane: la sua parola, la sua parola contro quella di tutti gli altri suoi ex compari, pronti a negare anche l’evidenza.
Memorabili pure gli incontri tra Buscetta e il giudice Falcone (Fausto Russo Alesi), anche se, come ha commentato ancora Bellocchio durante l’incontro con la stampa a Cannes: «Non si è capita subito l’importanza delle parole di Buscetta, è solo il maxiprocesso che ci ha mostrato il ruolo fondamentale del pentito in quell’evento che costituisce comunque una vittoria parziale dello Stato sulla mafia. La mafia esiste ancora oggi ma non è più quella di Buscetta».
Il traditore si svolge sull’arco di un ventennio, dal 1980 al 2000, accompagnando Buscetta attraverso il suo arresto e la sua estradizione dal Brasile, la strage di Capaci (23 maggio 1992, esattamente 27 anni prima della presentazione del film a Cannes), il processo del 1993 contro Giulio Andreotti (durante il quale, malato e invecchiato, Buscetta viene giudicato inattendibile) e la morte avvenuta il 2 aprile del 2000 nella sua casa in Florida.
Per Pierfrancesco Favino interpretare un simile personaggio ha significato «cercare di sbirciare dietro quegli occhiali scuri che portava sempre, cercare di guardarlo negli occhi, attraverso dei minimi dettagli e un linguaggio estremamente costruito che non è né italiano, né siciliano, né portoghese, ma un mix di tutto ciò. Un personaggio che cambia ruolo a seconda del suo interlocutore, grazie a una capacità di sfuggire agli altri e a se stesso che si concretizza nelle sue operazioni di chirurgia estetica, iniziate già prima che collaborasse con la giustizia». Tutto ciò dà vita a una figura unica, che si distingue da tutti gli altri mafiosi perché, come spiega ancora Bellocchio: «Lui non è nato mafioso ma ha scelto di esserlo e durante il maxiprocesso è stato l’unico a sfuggire a quell’immagine del mafioso come contadino ignorante che ha finalmente aperto gli occhi ai palermitani che da allora in poi hanno capito che la mafia era vulnerabile, che poteva essere sconfitta e hanno iniziato a scendere per strada per manifestare contro Cosa Nostra».