Tra cene e banchetti alla corte dei Gonzaga

Esce un volume di cui l’intelligenza editoriale dice tutto in copertina e di lì stimola inesorabilmente a sfogliarlo. Appartiene alla collana dei Gonzaga digitali, e il titolo è «La cultura alimentare a Mantova fra Cinquecento e Seicento», con sottotitolo «Storie di cibi e banchetti nei carteggi gonzagheschi». L’illustrazione rappresenta un particolare del dipinto di Jacopo Bassano Cristo nella casa di Marta, Maria e Lazzaro, in cui si vede Marta indaffarata con pentole, piatte e mestoli a cuocere cibi nel focolare, mentre alle sue spalle pendono capponi pronti per la cottura e una tavola imbandita con frutta e vino, dove Lazzaro è già seduto e aspetta affettando salame col coltello in mano.
All’interno del volume si susseguono per centocinquanta pagine una serie di saggi a più mani, che rendono conto dei documenti, soprattutto la corrispondenza, relativi all’alimentazione nel ducato e nella corte gonzaghesca e nel Mantovano, quali si trovano nei suoi archivi, che vengono progressivamente digitalizzati e così messi a disposizione degli studiosi o semplicemente dei curiosi, che almeno in questo caso promettono di essere parecchi.
Questi manoscritti abbracciano tutto il mondo culinario, dagli ambienti agli strumenti agli ingredienti ai menù e alla meta finale, i commensali seduti beatamente a tavola a godere tanto ben di Dio. E ciò fra il 1563 e al 1630, come a dire al culmine dell’età rinascimentale, in una delle corti più splendide e colte, con duchi e duchesse imparentati con le grandi e potenti famiglie europee, amanti del lusso e delle arti.
Ed altresì in una fase di trapasso, in cui l’avvento della cucina francese non aveva ancora imposto le sue ricercatezze e appena si accennava la differenza degli alimenti sulle tavole dei poveri e dei ricchi.
Quanto al resto, le distinzioni naturalmente erano fortissime. Un pranzo offerto dal vescovo di San Donnino ambasciatore del duca di Parma nell’aprile del 1620 comprende cinque portate di carne, una di pesce, una trota «di smisurata lunghezza» di cui non fu mai visto l’uguale su una tavola, frutta e sette vassoi colmi di confetture; vasta varietà di vini, purtroppo però bevuti pochissimo per riguardo verso il presidente del banchetto, un cardinale astemio.
A un pranzo nuziale veneziano nel giugno del 1573 presero parte più di ottocento persone, in un giardino, fra spalliere di melograni, su una tavolata di cui, riferisce un testimone, «io non vidi mai la più graziosa vista tanto era lunga e tante erano le donne in fila, belle e ben ornate, che si sono stimate haver di perle solamente più di 60 mila scudi».
Sulla tavola in cui l’imperatore Massimiliano II d’Asburgo convitò i suoi grandi elettori il 31 luglio del 1570 furono imbanditi successivamente quattrocento piatti ornati come altrettante merviglie; e Sua Maestà, sebbene fosse stato male pochi giorni prima, si mostrò molto allegro e rimase ad assistere al concertino finale sino a mezzanotte, senza «mostrarsi niente straco, e anchi ogi s’è veduto franco e virile».
In questi menù stracolmi non c’è una progressione simile alla nostra, introdotta a fine Settecento, dall’insipido al saporoso, dal salato al dolce. Lo zucchero entrava un po’ dappertutto come le spezie, e tra una portata e l’altra erano intervallati canditi e confetture per favorire la digestione delle enormi quantità di carni. Leggiamo ancora qui in una relazione da Vienna del giugno 1560 che in un banchetto per festeggiare l’imperatore fu consumata «grandissima quantità d’ogni sorte d’animali quadrupedi et volatili, confetture et zuccari. E doppo che si fu cenato cominciò una bella danza».
Tutto bene, anzi benissimo, solo con qualche cautela, come quella relativa alla carne suina, che viene definita molto nutriente quindi adatta ai giovani e alle persone che faticano, mentre nuoce «alle persone delicate, ai vecchi et agli otiosi». Quanto poi alle verdure, nei conti delle spese di cucina della corte ducale se ne trovano citate una decina, piuttosto pesanti (aglio, cipolle, ceci, fagioli, fave, broccoli), aggiunte ai formaggi, a uova, frutta fresca e secca, olio, spezie eccetera.
Signori poi anche del Monferrato, i duchi non mancarono di far venire di lì anche «fragrantissimi tartufi» per la «giocondezza del gusto e amabilità dell’odore», come garantisce uno storico locale di quegli anni in un’annotazione nell’Archivio storico di Casale.
Ma gli altri, i contadini e braccianti come se la cavavano? Nelle nostre regioni, e in particolare nel Mantovano molto acquitrinoso, si diffuse proprio in quei decenni, poco apprezzato dai ricchi ma provvidenziale per i poveri, il riso. Il priore di un convento che ospitava a tavola i più poveri dei dintorni rivolge questa supplica al marchese il 2 ottobre 1478: «Intendiamo che vostra signoria ha grandissima quantità di risi nati sul mantovano. Et perché noi poverini incarcerati in questo borgo nulla troviamo per lo nostro vivere, prego el pietoso vostro core ce facia elemosina de dicto riso, e sarà darne a Dio, che vel farà augmentare de anno in anno senza misura».
Quanto al resto, il villano può provvedere la propria mensa, oltre che di riso, soltanto di ortaggi, radici, rape, legumi prodotti dalla propria terra, con poco buone e belle conseguenze anche per il suo benessere. Sicché Bertoldo muore per essere stato costretto dai medici di corte a seguire la dieta dei signori, e citando un detto, secondo cui «Chi è uso alle rape non vada ai pasticci». Quando il Re gli chiese chi fossero i suoi antenati, egli aveva risposto: «I fagiuoli, i quali bollendo al fuoco vanno ascendendo e descendendo su e giù per la pignatta».
Oltre a questa messe di notizie sparse e presenti al vivo, nella loro quotidianità, in questi documenti, un’altra ne descrive la necessaria fucina, le immense cucine ducali, più di una, con cantine e dispense e cortiletti per «in ogni tempo star a pelare volaterie, e scorticare animali quadrupedi», quali prescritte dagli architetti, «allegre e ariose», affacciate sui giardini.
Ad avvalorare ulteriormente questi documenti sta anche un altro aspetto: quello linguistico. Redatti non da letterati ma da uomini del mestiere o da ciambellani e diplomatici, e su temi spiccioli e problemi pratici, la prosa e il lessico aderiscono spesso al discorso quotidiano e alla descrizione di oggetti umili e prodotti materiali. A ciò è rivolta l’attenzione soprattutto nei saggi della seconda parte del volume, esaminando anche opere a stampa.
Un’ottava del Morgante di Luigi Pulci, citata da Alvise Andreose e Annalisa Spinello nel testo di apertura del volume, può ben anche sintetizzarne l’arco. In quel poema, dove tutto è ameno ed enorme, a partire dal protagonista il gigantesco scudiero di Orlando, un pranzo è descritto come affollato di vivande «di molte ragioni [speci]: | pavoni e starne e lepretti e fagiani, | cervi e conigli e di grassi capponi, | e vino ed acqua per bere e per mani. | Morgante sbadigliava a gran bocconi, | e furno al [furono dal] bere resi infermi, al [dal] mangiar sani;| e poi che sono stati a lor diletto, | si riposorno intro in un ricco letto».